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giovedì 20 dicembre 2012

Il nuovo lavoro a progetto spiegato al pubblico



Natura e requisiti, compensi, sistema sanzionatorio nella circolare
della Direzione generale per l’Attività Ispettiva

                                                                             
L'articolo è pubblicato sul n. 4/2013 della rivista Consulenza, ed. Buffetti

Il quadro generale.

Il nuovo lavoro a progetto, nella versione attuale come risulta dagli articoli 61 e successivi del d.lgs 276/2003 dopo la riforma Fornero, vede decisamente circoscritto il proprio campo di applicazione. Non è certamente un mistero che l’uso disinvolto di tale istituto ha costituito per lungo tempo un approdo molto praticato da parte di quei datori di lavoro che intendessero eludere con apparenti parvenze di regolarità le norme sul lavoro dipendente, con particolare riferimento applicativo  al lavoro a tempo determinato. Eppure il lavoro a progetto non era nato così. E’ noto infatti che il vero pensiero di Marco Biagi sulla riforma del lavoro in generale e sui contratti a progetto in particolare derivava dalla sua lunga ricerca di cui poi fu espressione, anche in termini di valori culturali, il Libro Bianco del 2001, a cui la legge 30 ed il successivo  d.lgs 276/2003 dettero risposte fedeli solo in parte e neppure complete. Si viveva allora in un periodo in cui si andava affermando, anche sulla scorta di analoghe esperienze europee, un concetto di flessibilità, considerato però in senso positivo, come naturale evolversi di forme di lavoro autonome inserite anche in un ambito di creatività del collaboratore; e non nel senso costrittivo come è ridotto attualmente,  anche a causa della crisi generalizzata. Si aggiungeva anzi che “la cosiddetta parasubordinazione appartiene pur sempre all’area del lavoro autonomo e, almeno in certi casi, della auto-imprenditorialità”. Pertanto si riteneva dovesse essere superato l’uso e l’abuso della collaborazione coordinata e continuativa, che invece aveva in sé i presupposti per essere un surrogato precario ed anche dequalificato del lavoro subordinato.
E’ vero però che il decreto legislativo di allora, per la verità riprendendo anche un’ impostazione contenuta nel Libro Bianco, aveva licenziato una tipologia di lavoro a progetto non solo con riferimento a progetti specifici, ma anche a programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente. Queste fasi, anche se gestite autonomamente dal collaboratore, avevano in sé in nuce tutte quelle interpretazioni limitative della figura tipica del collaboratore in quanto distinta da quella del dipendente, che fatalmente dovevano portare ad interpretazioni difformi dallo spirito con cui la norma stessa era stata introdotta. Non a caso proprio l’utilizzo spesso non corretto ed in qualche caso anche abnorme del contratto in questione, privo del progetto, ma inquadrabile in un programma o fase di esso poco si discostava nella sua natura, ma soprattutto nel suo svolgimento,  da un rapporto di lavoro dipendente, avendone le caratteristiche, ma non il nome e di conseguenza il trattamento.
Un altro aspetto critico è stato rappresentato dalla correlazione tra la natura delle prestazioni, in pratica il contenuto del progetto, e l’attività principale o accessoria dell’impresa. Su questo nulla diceva l’originario art. 61 del decreto legislativo, ma i commenti della dottrina ed alcune sentenze della magistratura avevano fatto sì che l’argomento venisse affrontato nella circolare n. 1/2004 direttamente firmata dal ministro Maroni, con la quale il problema si poneva e veniva risolto ammettendo che il progetto potesse  essere connesso con l’attività principale od accessoria dell’impresa. Si badi bene: connesso. Che era probabilmente un modo di dire e non dire, lasciando aperto il campo alle interpretazioni del servizio ispettivo e in seconda battuta dei giudici. Diversamente posizionato invece, anche politicamente, il successivo intervento ministeriale, con la circolare 17/2006, anch’essa firmata dal ministro, ma stavolta Damiano, con la quale si accettava che esistesse una connessione all’attività principale od accessoria dell’impresa, ma che non poteva né coincidere né sovrapporsi.
Un altro aspetto riguardava le tipologie di attività per le quali si ricorreva ai contratti in questione e balzava subito all’evidenza come un rapporto di lavoro all’interno di queste tipologie non potesse essere compatibile con la natura di lavoro autonomo connaturata all’istituto del lavoro a progetto. Su questo argomento era già intervenuto il Ministero del Lavoro con la circolare n. 4 del 29 gennaio 2008, mediante la quale s’individuavano, tra l’altro, alcune attività per le quali sarebbe stato difficile ipotizzare forme di lavoro autonomo a progetto. Si tenga presente – anche in questo caso - la fase politica in cui era stata emanata la circolare, anche perché, fermo restando un sostanziale consenso di facciata sull’ istituto, che comunque segnava un progresso rispetto alla mera collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409 del codice di procedura civile, sul lavoro a progetto si è assistito ad un balletto d’ interpretazioni in tutto e per tutto dettate dai vari angoli di visione da cui questo era considerato, politica, sociale ma anche e soprattutto giuridica.
E’ indubbio che su questi argomenti la riforma Fornero ha fatto giustizia di tante letture particolari, sottili ed anche divaricanti, prendendo di petto direttamente la causa del contendere. D’ora in poi infatti si potrà parlare di contratto e quindi di prestazioni a progetto solo in presenza di un progetto scritto e stipulato tra le parti, che abbia un oggetto definito e sia collegato al conseguimento di un risultato finale, che non si risolva perciò in programmi di lavoro e relative fasi e che quindi si debba considerare tale solo se compiuto. Inoltre il progetto stesso non potrà consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente. Per la verità quest’ultima condizione è quella che potrebbe suscitare i maggiori dubbi interpretativi e dar luogo a contenzioso, perché è difficile stabilire quale sia il confine tra il core business dell’impresa e le attività collegate, se ogni attività dell’impresa deve comunque concorrere alla riuscita dell’impresa stessa. Possiamo solo dire che considerazioni su questo punto esulano dagli obiettivi che ci poniamo con questo scritto e che lasciamo volentieri all’ immaginazione dei giuristi.
Dopo questa premessa, passiamo ai temi affrontati dalla circolare ora emanata - e per la verità attesa da tempo - dal Ministero del Lavoro, la n. 29 dell’11 dicembre 2012, a firma di Paolo Pennesi, direttore generale per l’attività ispettiva. A voler esser pignoli, si potrebbe osservare che esistono circolari in passato firmate direttamente dal ministro ed altre dal responsabile dei servizi ispettivi e che le prime potrebbero essere considerate come interpretazione autentica ed espressione di una volontà politica, le altre invece come esecutive in termini di controllo relative a decisioni politiche già espresse.

Requisiti e risultato finale del progetto.

Il primo punto affrontato si sofferma sui requisiti, rispetto ai quali si individua la prima e più importante limitazione: il progetto, come già recita la legge, deve essere uno e delimitato e non può essere costituito o sostituito come consentito nel passato da un programma settoriale o da una fase del programma stesso. Spiega anche la circolare che in concreto è difficile individuare riferimenti a programmi di lavoro od a fasi di esso e questa circostanza fa sì che programmi o fasi settoriali siano eliminati anche in altri passaggi della legge, come per esempio quando si parla del contenuto caratterizzante del progetto e del risultato finale che si intende conseguire.
Questo risultato finale è un altro dei punti fermi della riforma: non si può stabilire un contratto a progetto senza che sia fissato un obiettivo, cioè un risultato; e che questo risultato sia conseguito nelle condizioni, in genere di compiutezza, ma anche temporali, che rechino un vantaggio al committente. Su questo punto la circolare parla molto chiaro, sottolineando che ora non ci si può limitare alla mera indicazione del progetto, ma se ne richiede una descrizione, con i suoi contenuti caratterizzanti e soprattutto con indicazione del risultato che si intende conseguire.

Non coincidenza con l’oggetto sociale del committente.

Alla luce di questa imperatività, meno limpide risultano invece le ragioni per cui il progetto non possa consistere in una mera riproposizione dell’ oggetto sociale del committente. Per la verità è forse l’aggettivo usato in accompagnamento, mera, che salva un po’ capra e cavoli, ma il redattore della circolare è onesto nel ricordare il ruolo svolto dalla giurisprudenza per indurre ad un ripensamento rispetto alle posizioni originarie, che invece ammettevano esplicitamente la connessione con l’attività principale od accessoria dell’impresa [circolare Maroni] o al massimo ne esorcizzavano la coincidenza o la sovrapposizione [circolare Damiano].
Il risultato però non è completamente soddisfacente per una qualsiasi delle angolazioni da cui la si voglia osservare, ma ciò comporterebbe valutazioni politiche che in questa sede non sono pertinenti. Interessa invece dal punto di vista operativo perché è molto labile il confine tra un risultato finale idoneo a realizzare uno specifico interesse del committente, ancorché circoscritto, ed un progetto, magari di ricerca finalizzata all’ innovazione, resa però nell’ambito di un’attività tipica del committente stesso. Sarà perciò opportuno – ed a questo sembrano tendere anche la raccomandazioni di fatto contenute nella circolare – che il progetto sia minutamente descritto, non solo nelle sue caratteristiche tecniche, ma anche nel suo posizionamento rispetto all’azienda, alla sua attività ed alle soluzioni ipotizzate per il conseguimento di obiettivi di sviluppo, ciò che deve costituire il motore principale, anche se non esclusivo, dell’attività progettuale.

Svolgimento di compiti non meramente esecutivi o ripetitivi.

Ne abbiamo già accennato in premessa. La formulazione originaria del d.lgs 276/2003, un po’ forse per eccesso di fiducia, non accennava alla possibilità che i contratti in argomento potessero essere utilizzati per lo svolgimento o l’esecuzione di compiti meramente esecutivi o ripetitivi. In realtà la maggiore preoccupazione era stata allora quella di dare una sistemazione organica a quei contratti richiamati dell’art. 409 c.p.c., ossia, come recita le legge, gli “altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”. L’introduzione di questa figura a livello processuale risale al 1973, ma il suo utilizzo diffuso e la legittimazione di fatto comincia con l’ assoggettamento contributivo di questo tipo di prestazioni con il pacchetto Dini nel 1995, il che costituì un vero e proprio sdoganamento di questa figura sul mercato del lavoro. Oggi la legge esclude dal lavoro a progetto questo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi e aggiunge: che possano essere individuati dai contratti collettivi stipulati, ecc…, con questo significando che là dove esistano nella contrattazione collettiva figure identificate in qualità di lavoro subordinato che svolgano questo tipo di compiti meramente esecutivi o ripetitivi, l’utilizzo di lavoratori non può avvenire che in qualità di lavoratori dipendenti.
Su questo punto la circolare è abbastanza dettagliata, addentrandosi anche a definire le caratteristiche del lavoro esecutivo, che consiste nella mera attuazione di quanto impartito, anche di volta in volta, dal committente, senza alcun margine di autonomia operativa anche da parte del collaboratore; e del lavoro ripetitivo, caratterizzato da attività elementari che non richiedono, per la loro stessa natura, nonché per il contenuto delle mansioni nelle quali si articolano, specifiche indicazioni di carattere operativo fornite di volta in volta dal committente. Si indicano come tipiche di queste attività le prestazioni dei camerieri o dei baristi.
Ma l’individuazione non è così pacifica come può sembrare a prima vista e la stessa circolare lo ammette, avvertendo che l’intervento delle parti sociali, che è meramente facoltativo, non può essere considerato esaustivo ai fini di una individuazione corretta delle attività non consentite; ed in questo campo rimane salva una motivata discrezionalità da parte dell’attività ispettiva per quanto riguarda l’applicazione della presunzione.
Per ciò che concerne invece l’enunciazione di attività che difficilmente possano essere ritenute inquadrabili nell’ambito di un rapporto di collaborazione a progetto, la circolare si rifà a precedenti orientamenti, in particolare alle attività già identificate nella circolare n. 4/2008, con l’aggiunta di magazzinieri, addetti alla somministrazione di cibi o bevande (ma erano già presenti baristi e camerieri) ed agli addetti alle prestazioni nell’ambito dei call center per servizi cosiddetti in bound. Riguardo a quest’ultima categoria può essere utile ricordare che l’esclusione degli out bound da questo elenco vale a consentire la possibilità di stipulare progetti per questo tipo di attività, venendo così ad essere confermata l’ interpretazione fornita con la precedente circolare del ministro Damiano del 14 giugno 2006.

La questione del compenso.

Nella prima stesura del 2003 la questione del compenso soffriva di una certa indeterminatezza. L’art. 63 che fissava il corrispettivo faceva solo riferimento all’esigenza che questo fosse proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito, con la sola – vaga – condizione che fosse raccordabile con la normale misura dei compensi di lavoro autonomo nello stesso luogo di svolgimento del rapporto. Solo più tardi, pur rimanendo invariato il testo di questo articolo, nella legge finanziaria 2007, s’individuava un criterio per la determinazione di quanto dovuto al collaboratore a progetto, che doveva fare riferimento ai compensi stabiliti secondo la contrattazione collettiva per i lavoratori dipendenti che svolgevano analoghe mansioni. Ed ancora, in seguito, l’art. 8 del DL 138/2011 introduceva la possibilità di specifiche intese nei contratti di prossimità che riguardassero anche le modalità di assunzione e disciplina del rapporto, comprese le collaborazioni coordinate e continuative di lavoro a progetto, con riferimento anche al trattamento economico. Si trattava comunque di disposizioni per interventi delimitati territorialmente e peraltro sinora senza eccessivo seguito. Invece l’art. 63 novellato entra direttamente in argomento e prevede un meccanismo di confronto con la contrattazione collettiva e relativo adeguamento almeno ai minimi salariali per le mansioni equiparabili.
Questo meccanismo però attende ancora la sua traduzione in termini operativi, dal momento che la contrattazione collettiva deve ancora recepire quanto previsto dalle legge. Inoltre la norma subisce l’ansia di dover trovare dei parametri d’aggancio che, allo stato attuale, possono essere forniti solo da una contrattazione collettiva che però sul punto è ancora abbastanza indietro, soprattutto culturalmente, non avendo ancora approfondito a sufficienza le differenze tra lavoro autonomo a progetto e lavoro dipendente: il primo caratterizzato dal conseguimento del risultato, il secondo dall’ estensione temporale della prestazione.
Il ministero è consapevole di queste difficoltà, che comunque ritengo si auguri temporanee, dal momento che con la circolare il servizio ispettivo stesso rimanda alla contrattazione collettiva l’onere di fornire al più presto un quadro di riferimento retributivo e nelle more non si darà luogo all’adozione di provvedimenti di diffida accertativa, se non in caso di controversia sulla quantificazione del credito e fermo restando che, anche nel lavoro a progetto, l’insorgenza contributiva è collegata alle somme effettivamente erogate.

Sanzioni e presunzioni.

Non molto di nuovo invece si registra dal punto di vista della sanzione operativa e delle relative conseguenze di natura pecuniaria: come nel precedente regime, se il progetto è assente o è insufficientemente determinato oppure è costituito da un insieme di cosiddette clausole di stile senza alcuna corrispondenza progettuale di natura operativa, la conseguenza, a norma del primo comma del novellato art. 69, è la costituzione di un rapporto di lavoro di natura subordinata a tempo indeterminato, che, come ricorda la circolare, è la forma comune di rapporto di lavoro ai sensi di legge; norma sanzionatoria confermata anche dall’interpretazione autentica contenuta nel comma 24 dell’art. 1 della legge 92/2012, cosiddetta Fornero.
Aggiunge la circolare che in chiave operativa, ossia come direttiva per il servizio ispettivo, il progetto è da ritenersi assente se mancano i requisiti essenziali, ossia quelli di cui si è trattato finora, come il collegamento ad un risultato finale ben determinato preventivamente, non coincidenza con l’oggetto sociale del committente o collocazione autonoma nell’ambito dell’oggetto stesso e svolgimento da parte del lavoratore a progetto di compiti non esecutivi o ripetitivi. Riguardo alle riserve sulla coincidenza con l’oggetto sociale del committente si è già detto.
Resta infine da parlare della cosiddetta presunzione di subordinazione prevista dal secondo comma dell’art. 69. Essa opera nel caso in cui venga accertato che un lavoratore destinatario di un contratto di lavoro a progetto svolga in realtà le sue prestazioni con modalità analoghe a quelle del lavoratore subordinato.  Nella circolare si sottolinea che agli effetti della presunzione sono qualificanti non i contenuti dell’ attività, che possono essere i medesimi  svolti anche dai lavoratori dipendenti, però questa attività deve essere svolta con modalità organizzative radicalmente diverse. Dove è da ritenere che per diverse s’intenda esistenza di un progetto autonomo e compiuto, nonché autonomia nell’organizzazione e nell’esecuzione del proprio lavoro. Di contro un collaboratore che svolge attività diverse in presenza di progetto, ma di fatto rimane inquadrato nell’ organizzazione dell’impresa come modalità di lavoro, rispetto dell’orario e assoggettamento ad un potere direttivo, è presuntivamente considerato come lavoratore subordinato.
Detto però che questo tipo di presunzione fa parte del novero delle presunzioni relative, nel senso che il committente potrà dimostrare che si tratta di una collaborazione genuina, fornendo in giudizio prova contraria, rimane solo da osservare che anche per il campo presuntivo permane un accavallarsi di interpretazioni e precisazioni ed anche un po’ d’incertezza, specie in materia di esecuzione delle prestazioni e soprattutto del loro oggetto, come inquadrabile o meno nell’attività prevalente dell’azienda. Ed è da prevedere che tutto ciò potrà fornire abbondante materia di discussione e di contenzioso per future vicende, anche portate in giudizio.

Silla Cellino, 20 dicembre 2012
 

1 commento:

  1. Ciao jonis,
    sono ramòn dalle belle ciglia.

    hai fatto un lavoro molto bello nella tua analisi.

    Ma ti confesso altresì la mia incapacità di seguirti in un'analisi puramente dottrinale e di principio.

    Io lavoro nella ricerca e ho un gruppo di ciollaboratori/trici alcune delle quali hanno messo in piedi trafile di 13 anni usufruendo delle varie figure interinali ipotizzate da Biagi e implementate da questa gente che ci amministra.

    CoCoCo, lavori a progetto, contratti a scadenza, periodi di sospensione per introdurre una fittizia logica di soluzione della continuitò del rappoerto di lavoro.

    Una vergogna.

    Ma il più bello della vergogna arriva nel momento nel quale, per miracoli imprescindibili, si realizza un posto nuovo e il relativo concorso.

    I posti nuovi sono talmente pochi, i pretendenti talmente tanti, tante le forze giudo-massoniche nascoste (ma non troppo) che il risultato è che quelle persone che hanno sempre lavorato, per le quali il posto è stato chiaramente disegnato in un bisogno lavorativo esistente e imprescindibile, vengono sopraffatte da logiche più forti di loro e addirittura più forti di me, che come presidente della commissione d'esame ho potuto solamente rovesciare il tavolo e mandare a monte il concorso stesso.
    ma non è servito a nulla, tre giorni fa una commissione nuova di zecca, prezzolata quel che basta, ha definitivamente condannato la giustizia ed il giusto.

    Tu chiudi parlando di contenzioso e di portare in giudizio: ma come credi che questo sia possibile in un mondo nel quale lo stesso sindacato è una controparte del precario?

    Io non nutro speranze.

    ti saluto e ti ringrazio per la competenza che hai e che riesci a dimostrare.

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