Natura e requisiti, compensi, sistema sanzionatorio
nella circolare
della Direzione generale per l’Attività Ispettiva
L'articolo è pubblicato sul n. 4/2013 della rivista Consulenza, ed. Buffetti
Il quadro generale.
Il
nuovo lavoro a progetto, nella versione attuale come risulta dagli articoli 61
e successivi del d.lgs 276/2003 dopo la riforma Fornero, vede decisamente circoscritto
il proprio campo di applicazione. Non è certamente un mistero che l’uso
disinvolto di tale istituto ha costituito per lungo tempo un approdo molto
praticato da parte di quei datori di lavoro che intendessero eludere con
apparenti parvenze di regolarità le norme sul lavoro dipendente, con
particolare riferimento applicativo al
lavoro a tempo determinato. Eppure il lavoro a progetto non era nato così. E’
noto infatti che il vero pensiero di Marco Biagi sulla riforma del lavoro in
generale e sui contratti a progetto in particolare derivava dalla sua lunga
ricerca di cui poi fu espressione, anche in termini di valori culturali, il
Libro Bianco del 2001, a cui la legge 30 ed il successivo d.lgs 276/2003 dettero risposte fedeli solo
in parte e neppure complete. Si viveva allora in un periodo in cui si andava affermando,
anche sulla scorta di analoghe esperienze europee, un concetto di flessibilità,
considerato però in senso positivo, come naturale evolversi di forme di lavoro
autonome inserite anche in un ambito di creatività del collaboratore; e non nel
senso costrittivo come è ridotto attualmente,
anche a causa della crisi generalizzata. Si aggiungeva anzi che “la
cosiddetta parasubordinazione appartiene pur sempre all’area del lavoro
autonomo e, almeno in certi casi, della auto-imprenditorialità”. Pertanto si
riteneva dovesse essere superato l’uso e l’abuso della collaborazione
coordinata e continuativa, che invece aveva in sé i presupposti per essere un
surrogato precario ed anche dequalificato del lavoro subordinato.
E’
vero però che il decreto legislativo di allora, per la verità riprendendo anche
un’ impostazione contenuta nel Libro Bianco, aveva licenziato una tipologia di
lavoro a progetto non solo con riferimento a progetti specifici, ma anche a
programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente. Queste fasi,
anche se gestite autonomamente dal collaboratore, avevano in sé in
nuce tutte quelle interpretazioni limitative della figura tipica del
collaboratore in quanto distinta da quella del dipendente, che fatalmente
dovevano portare ad interpretazioni difformi dallo spirito con cui la norma
stessa era stata introdotta. Non a caso proprio l’utilizzo spesso non corretto
ed in qualche caso anche abnorme del contratto in questione, privo del
progetto, ma inquadrabile in un programma o fase di esso poco si discostava
nella sua natura, ma soprattutto nel suo svolgimento, da un rapporto di lavoro dipendente, avendone
le caratteristiche, ma non il nome e di conseguenza il trattamento.
Un
altro aspetto critico è stato rappresentato dalla correlazione tra la natura
delle prestazioni, in pratica il contenuto del progetto, e l’attività
principale o accessoria dell’impresa. Su questo nulla diceva l’originario art.
61 del decreto legislativo, ma i commenti della dottrina ed alcune sentenze
della magistratura avevano fatto sì che l’argomento venisse affrontato nella
circolare n. 1/2004 direttamente firmata dal ministro Maroni, con la quale il
problema si poneva e veniva risolto ammettendo che il progetto potesse essere connesso con l’attività principale od
accessoria dell’impresa. Si badi bene: connesso. Che era probabilmente un modo
di dire e non dire, lasciando aperto il campo alle interpretazioni del servizio
ispettivo e in seconda battuta dei giudici. Diversamente posizionato invece,
anche politicamente, il successivo intervento ministeriale, con la circolare
17/2006, anch’essa firmata dal ministro, ma stavolta Damiano, con la quale si
accettava che esistesse una connessione all’attività principale od accessoria
dell’impresa, ma che non poteva né coincidere né sovrapporsi.
Un
altro aspetto riguardava le tipologie di attività per le quali si ricorreva ai
contratti in questione e balzava subito all’evidenza come un rapporto di lavoro
all’interno di queste tipologie non potesse essere compatibile con la natura di
lavoro autonomo connaturata all’istituto del lavoro a progetto. Su questo
argomento era già intervenuto il Ministero del Lavoro con la circolare n. 4 del
29 gennaio 2008, mediante la quale s’individuavano, tra l’altro, alcune
attività per le quali sarebbe stato difficile ipotizzare forme di lavoro
autonomo a progetto. Si tenga presente – anche in questo caso - la fase
politica in cui era stata emanata la circolare, anche perché, fermo restando un
sostanziale consenso di facciata sull’ istituto, che comunque segnava un
progresso rispetto alla mera collaborazione coordinata e continuativa di cui
all’art. 409 del codice di procedura civile, sul lavoro a progetto si è
assistito ad un balletto d’ interpretazioni in tutto e per tutto dettate dai
vari angoli di visione da cui questo era considerato, politica, sociale ma
anche e soprattutto giuridica.
E’
indubbio che su questi argomenti la riforma Fornero ha fatto giustizia di tante
letture particolari, sottili ed anche divaricanti, prendendo di petto
direttamente la causa del contendere. D’ora in poi infatti si potrà parlare di
contratto e quindi di prestazioni a progetto solo in presenza di un progetto
scritto e stipulato tra le parti, che abbia un oggetto definito e sia collegato
al conseguimento di un risultato finale, che non si risolva perciò in programmi
di lavoro e relative fasi e che quindi si debba considerare tale solo se
compiuto. Inoltre il progetto stesso non potrà consistere in una mera
riproposizione dell’oggetto sociale del committente. Per la verità quest’ultima
condizione è quella che potrebbe suscitare i maggiori dubbi interpretativi e
dar luogo a contenzioso, perché è difficile stabilire quale sia il confine tra
il core
business dell’impresa e le attività collegate, se ogni attività
dell’impresa deve comunque concorrere alla riuscita dell’impresa stessa. Possiamo
solo dire che considerazioni su questo punto esulano dagli obiettivi che ci poniamo
con questo scritto e che lasciamo volentieri all’ immaginazione dei giuristi.
Dopo
questa premessa, passiamo ai temi affrontati dalla circolare ora emanata - e
per la verità attesa da tempo - dal Ministero del Lavoro, la n. 29 dell’11
dicembre 2012, a firma di Paolo Pennesi, direttore generale per l’attività
ispettiva. A voler esser pignoli, si potrebbe osservare che esistono circolari
in passato firmate direttamente dal ministro ed altre dal responsabile dei
servizi ispettivi e che le prime potrebbero essere considerate come
interpretazione autentica ed espressione di una volontà politica, le altre
invece come esecutive in termini di controllo relative a decisioni politiche
già espresse.
Requisiti e risultato
finale del progetto.
Il
primo punto affrontato si sofferma sui requisiti, rispetto ai quali si
individua la prima e più importante limitazione: il progetto, come già recita
la legge, deve essere uno e delimitato e non può essere costituito o sostituito
come consentito nel passato da un programma settoriale o da una fase del
programma stesso. Spiega anche la circolare che in concreto è difficile
individuare riferimenti a programmi di lavoro od a fasi di esso e questa
circostanza fa sì che programmi o fasi settoriali siano eliminati anche in altri
passaggi della legge, come per esempio quando si parla del contenuto
caratterizzante del progetto e del risultato
finale che si intende conseguire.
Questo
risultato finale è un altro dei punti fermi della riforma: non si può stabilire
un contratto a progetto senza che sia fissato un obiettivo, cioè un risultato;
e che questo risultato sia conseguito nelle condizioni, in genere di
compiutezza, ma anche temporali, che rechino un vantaggio al committente. Su
questo punto la circolare parla molto chiaro, sottolineando che ora non ci si
può limitare alla mera indicazione del progetto, ma se ne richiede una
descrizione, con i suoi contenuti caratterizzanti e soprattutto con indicazione
del risultato che si intende conseguire.
Non coincidenza con
l’oggetto sociale del committente.
Alla
luce di questa imperatività, meno limpide risultano invece le ragioni per cui
il progetto non possa consistere in una mera riproposizione dell’ oggetto
sociale del committente. Per la verità è forse l’aggettivo usato in accompagnamento,
mera, che salva un po’ capra e
cavoli, ma il redattore della circolare è onesto nel ricordare il ruolo svolto
dalla giurisprudenza per indurre ad un ripensamento rispetto alle posizioni
originarie, che invece ammettevano esplicitamente la connessione con l’attività
principale od accessoria dell’impresa [circolare Maroni] o al massimo ne
esorcizzavano la coincidenza o la sovrapposizione [circolare Damiano].
Il
risultato però non è completamente soddisfacente per una qualsiasi delle angolazioni
da cui la si voglia osservare, ma ciò comporterebbe valutazioni politiche che
in questa sede non sono pertinenti. Interessa invece dal punto di vista operativo
perché è molto labile il confine tra un risultato finale idoneo a realizzare
uno specifico interesse del committente, ancorché circoscritto, ed un progetto,
magari di ricerca finalizzata all’ innovazione, resa però nell’ambito di
un’attività tipica del committente stesso. Sarà perciò opportuno – ed a questo
sembrano tendere anche la raccomandazioni di fatto contenute nella circolare –
che il progetto sia minutamente descritto, non solo nelle sue caratteristiche
tecniche, ma anche nel suo posizionamento rispetto all’azienda, alla sua
attività ed alle soluzioni ipotizzate per il conseguimento di obiettivi di
sviluppo, ciò che deve costituire il motore principale, anche se non esclusivo,
dell’attività progettuale.
Svolgimento di
compiti non meramente esecutivi o ripetitivi.
Ne
abbiamo già accennato in premessa. La formulazione originaria del d.lgs
276/2003, un po’ forse per eccesso di fiducia, non accennava alla possibilità
che i contratti in argomento potessero essere utilizzati per lo svolgimento o
l’esecuzione di compiti meramente esecutivi o ripetitivi. In realtà la maggiore
preoccupazione era stata allora quella di dare una sistemazione organica a quei
contratti richiamati dell’art. 409 c.p.c., ossia, come recita le legge, gli
“altri rapporti di collaborazione che si
concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata,
prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”.
L’introduzione di questa figura a livello processuale risale al 1973, ma il suo
utilizzo diffuso e la legittimazione di fatto comincia con l’ assoggettamento
contributivo di questo tipo di prestazioni con il pacchetto Dini nel 1995, il
che costituì un vero e proprio sdoganamento di questa figura sul mercato del
lavoro. Oggi la legge esclude dal lavoro a progetto questo svolgimento di
compiti meramente esecutivi o ripetitivi e aggiunge: che possano essere
individuati dai contratti collettivi stipulati, ecc…, con questo significando
che là dove esistano nella contrattazione collettiva figure identificate in
qualità di lavoro subordinato che svolgano questo tipo di compiti meramente
esecutivi o ripetitivi, l’utilizzo di lavoratori non può avvenire che in
qualità di lavoratori dipendenti.
Su questo punto la circolare è
abbastanza dettagliata, addentrandosi anche a definire le caratteristiche del
lavoro esecutivo, che consiste nella mera
attuazione di quanto impartito, anche di volta in volta, dal committente, senza
alcun margine di autonomia operativa anche da parte del collaboratore; e
del lavoro ripetitivo, caratterizzato da attività elementari che non
richiedono, per la loro stessa natura, nonché
per il contenuto delle mansioni nelle quali si articolano, specifiche
indicazioni di carattere operativo fornite di volta in volta dal committente.
Si indicano come tipiche di queste attività le prestazioni dei camerieri o dei
baristi.
Ma l’individuazione non è così
pacifica come può sembrare a prima vista e la stessa circolare lo ammette,
avvertendo che l’intervento delle parti sociali, che è meramente facoltativo,
non può essere considerato esaustivo ai fini di una individuazione corretta
delle attività non consentite; ed in questo campo rimane salva una motivata
discrezionalità da parte dell’attività ispettiva per quanto riguarda
l’applicazione della presunzione.
Per ciò che concerne invece
l’enunciazione di attività che difficilmente possano essere ritenute
inquadrabili nell’ambito di un rapporto di collaborazione a progetto, la
circolare si rifà a precedenti orientamenti, in particolare alle attività già identificate
nella circolare n. 4/2008, con l’aggiunta di magazzinieri, addetti alla
somministrazione di cibi o bevande (ma erano già presenti baristi e camerieri)
ed agli addetti alle prestazioni nell’ambito dei call center per servizi cosiddetti in bound. Riguardo a quest’ultima categoria può essere utile
ricordare che l’esclusione degli out
bound da questo elenco vale a consentire la possibilità di stipulare
progetti per questo tipo di attività, venendo così ad essere confermata l’
interpretazione fornita con la precedente circolare del ministro Damiano del 14
giugno 2006.
La questione del compenso.
Nella prima stesura del 2003 la
questione del compenso soffriva di una certa indeterminatezza. L’art. 63 che
fissava il corrispettivo faceva solo riferimento all’esigenza che questo fosse
proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito, con la sola – vaga –
condizione che fosse raccordabile con la normale misura dei compensi di lavoro
autonomo nello stesso luogo di svolgimento del rapporto. Solo più tardi, pur
rimanendo invariato il testo di questo articolo, nella legge finanziaria 2007,
s’individuava un criterio per la determinazione di quanto dovuto al
collaboratore a progetto, che doveva fare riferimento ai compensi stabiliti secondo
la contrattazione collettiva per i lavoratori dipendenti che svolgevano analoghe
mansioni. Ed ancora, in seguito, l’art. 8 del DL 138/2011 introduceva la
possibilità di specifiche intese nei contratti di prossimità che riguardassero
anche le modalità di assunzione e disciplina del rapporto, comprese le
collaborazioni coordinate e continuative di lavoro a progetto, con riferimento
anche al trattamento economico. Si trattava comunque di disposizioni per
interventi delimitati territorialmente e peraltro sinora senza eccessivo
seguito. Invece l’art. 63 novellato entra direttamente in argomento e prevede
un meccanismo di confronto con la contrattazione collettiva e relativo
adeguamento almeno ai minimi salariali per le mansioni equiparabili.
Questo meccanismo però attende
ancora la sua traduzione in termini operativi, dal momento che la
contrattazione collettiva deve ancora recepire quanto previsto dalle legge.
Inoltre la norma subisce l’ansia di dover trovare dei parametri d’aggancio che,
allo stato attuale, possono essere forniti solo da una contrattazione
collettiva che però sul punto è ancora abbastanza indietro, soprattutto culturalmente,
non avendo ancora approfondito a sufficienza le differenze tra lavoro autonomo
a progetto e lavoro dipendente: il primo caratterizzato dal conseguimento del
risultato, il secondo dall’ estensione temporale della prestazione.
Il ministero è consapevole di queste
difficoltà, che comunque ritengo si auguri temporanee, dal momento che con la
circolare il servizio ispettivo stesso rimanda alla contrattazione collettiva
l’onere di fornire al più presto un quadro di riferimento retributivo e nelle
more non si darà luogo all’adozione di provvedimenti di diffida accertativa, se
non in caso di controversia sulla quantificazione del credito e fermo restando
che, anche nel lavoro a progetto, l’insorgenza contributiva è collegata alle
somme effettivamente erogate.
Sanzioni e presunzioni.
Non molto di nuovo invece si
registra dal punto di vista della sanzione operativa e delle relative
conseguenze di natura pecuniaria: come nel precedente regime, se il progetto è
assente o è insufficientemente determinato oppure è costituito da un insieme di
cosiddette clausole di stile senza alcuna corrispondenza progettuale di natura
operativa, la conseguenza, a norma del primo comma del novellato art. 69, è la
costituzione di un rapporto di lavoro di natura subordinata a tempo indeterminato,
che, come ricorda la circolare, è la forma comune di rapporto di lavoro ai
sensi di legge; norma sanzionatoria confermata anche dall’interpretazione autentica
contenuta nel comma 24 dell’art. 1 della legge 92/2012, cosiddetta Fornero.
Aggiunge la circolare che in chiave operativa,
ossia come direttiva per il servizio ispettivo, il progetto è da ritenersi
assente se mancano i requisiti essenziali, ossia quelli di cui si è trattato
finora, come il collegamento ad un risultato finale ben determinato
preventivamente, non coincidenza con l’oggetto sociale del committente o
collocazione autonoma nell’ambito dell’oggetto stesso e svolgimento da parte
del lavoratore a progetto di compiti non esecutivi o ripetitivi. Riguardo alle
riserve sulla coincidenza con l’oggetto sociale del committente si è già detto.
Resta infine da parlare della
cosiddetta presunzione di subordinazione prevista dal secondo comma dell’art.
69. Essa opera nel caso in cui venga accertato che un lavoratore destinatario
di un contratto di lavoro a progetto svolga in realtà le sue prestazioni con
modalità analoghe a quelle del lavoratore subordinato. Nella circolare si sottolinea che agli
effetti della presunzione sono qualificanti non i contenuti dell’ attività, che
possono essere i medesimi svolti anche
dai lavoratori dipendenti, però questa attività deve essere svolta con modalità
organizzative radicalmente diverse. Dove è da ritenere che per diverse
s’intenda esistenza di un progetto autonomo e compiuto, nonché autonomia
nell’organizzazione e nell’esecuzione del proprio lavoro. Di contro un
collaboratore che svolge attività diverse in presenza di progetto, ma di fatto rimane
inquadrato nell’ organizzazione dell’impresa come modalità di lavoro, rispetto
dell’orario e assoggettamento ad un potere direttivo, è presuntivamente
considerato come lavoratore subordinato.
Detto però che questo tipo di
presunzione fa parte del novero delle presunzioni relative, nel senso che il committente
potrà dimostrare che si tratta di una collaborazione genuina, fornendo in
giudizio prova contraria, rimane solo da osservare che anche per il campo
presuntivo permane un accavallarsi di interpretazioni e precisazioni ed anche
un po’ d’incertezza, specie in materia di esecuzione delle prestazioni e
soprattutto del loro oggetto, come inquadrabile o meno nell’attività prevalente
dell’azienda. Ed è da prevedere che tutto ciò potrà fornire abbondante materia
di discussione e di contenzioso per future vicende, anche portate in giudizio.
Silla Cellino, 20 dicembre 2012
Ciao jonis,
RispondiEliminasono ramòn dalle belle ciglia.
hai fatto un lavoro molto bello nella tua analisi.
Ma ti confesso altresì la mia incapacità di seguirti in un'analisi puramente dottrinale e di principio.
Io lavoro nella ricerca e ho un gruppo di ciollaboratori/trici alcune delle quali hanno messo in piedi trafile di 13 anni usufruendo delle varie figure interinali ipotizzate da Biagi e implementate da questa gente che ci amministra.
CoCoCo, lavori a progetto, contratti a scadenza, periodi di sospensione per introdurre una fittizia logica di soluzione della continuitò del rappoerto di lavoro.
Una vergogna.
Ma il più bello della vergogna arriva nel momento nel quale, per miracoli imprescindibili, si realizza un posto nuovo e il relativo concorso.
I posti nuovi sono talmente pochi, i pretendenti talmente tanti, tante le forze giudo-massoniche nascoste (ma non troppo) che il risultato è che quelle persone che hanno sempre lavorato, per le quali il posto è stato chiaramente disegnato in un bisogno lavorativo esistente e imprescindibile, vengono sopraffatte da logiche più forti di loro e addirittura più forti di me, che come presidente della commissione d'esame ho potuto solamente rovesciare il tavolo e mandare a monte il concorso stesso.
ma non è servito a nulla, tre giorni fa una commissione nuova di zecca, prezzolata quel che basta, ha definitivamente condannato la giustizia ed il giusto.
Tu chiudi parlando di contenzioso e di portare in giudizio: ma come credi che questo sia possibile in un mondo nel quale lo stesso sindacato è una controparte del precario?
Io non nutro speranze.
ti saluto e ti ringrazio per la competenza che hai e che riesci a dimostrare.