pubblicato su Consulenza ed. Buffetti on-line del 20 aprile 2017
La vita del dirigente non è sempre quella del
soggetto adagiato nella poltrona dietro la scrivania megalattica, che si
diverte a torturare moralmente il povero Fantozzi di buona memoria. Anche i
dirigenti hanno un’anima e soprattutto un corpo, professionale s’intende, su
cui possono abbattersi i fulmini del datore di lavoro quando lo stesso ritenga
l’operato del dirigente non più compatibile con la posizione che occupa e la
responsabilità che ne deriva. In tal caso il dirigente può essere licenziato,
per giusta causa, per giustificato motivo o, con una terminologia cui si è
giunti anche per via di Cassazione, per giustificatezza
del provvedimento
Si discute molto nella letteratura lavoristica
sulla natura del licenziamento del dirigente, natura che sfugge alle ordinarie
classificazioni tipiche del lavoro dipendente, anche se il lavoro dirigenziale
è esso stesso da annoverarsi tra le fattispecie di lavoro dipendente, sia pure sui generis e come tale disciplinato
nella contrattualistica. Salvo il caso di dimissioni, la contrattualistica stessa
però non è uniforme riguardo le procedure di licenziamento, la relativa tempistica,
le possibilità di ricorso o di opposizione, il trattamento economico
conseguente al licenziamento effettivo.
Ad esempio nel contratto per i dirigenti
dell’industria, mentre viene accolta l’ipotesi delle dimissioni del dirigente
non vengono specificate le cause che possono dar luogo al licenziamento,
riconducendone la possibilità alla disciplina operante per tutte le ipotesi di
lavoro dipendente; nel contratto terziario, distribuzione e servizi esiste
invece l’istituto del licenziamento, fermo restando che il datore di lavoro è
tenuto ad indicarne contestualmente la motivazione; e così con diverse modalità
nelle varie contrattazioni. Nella realtà pratica è anche d’uso che al dirigente,
qualora per qualsiasi motivo arrivi a mancare la sintonia con la proprietà e
quindi anche il vincolo fiduciario, vengano richieste le dimissioni, il che in
termini pratici equivale ad un licenziamento, ma in termini giuridici darebbe
luogo ad un’acquiescenza del dirigente alla volontà della controparte senza
implicazioni di natura risarcitoria, a meno che non siano intercorsi accordi
preventivi di carattere privato tra le parti.
Senza però dilungarci oltre su un argomento
che richiede altra complessità di trattazione[1],
preme in questa sede dire due parole sulle somme che vengono riconosciute al
dirigente al momento della conclusione della sua esperienza per volontà del
datore di lavoro e sul loro trattamento fiscale e contributivo, fermo restando
che il trattamento di fine rapporto viene calcolato ed erogato secondo la norma
generale attualmente in vigore. Infatti l’istituto del preavviso trova la sua
applicazione anche in caso di dimissioni oppure di licenziamento del dirigente,
così come lo è per la generalità del lavoro dipendente ed è regolato in misura
variabile a seconda dei contratti collettivi di riferimento. Per citare i più
praticati, nell’industria il preavviso di licenziamento è stabilito in otto
mesi per un’anzianità di servizio fino a due anni e gradualmente aumentato per
ogni anno successivo di anzianità; nel commercio e servizi da un minimo di sei
mesi fino al quarto anno fino a dodici mesi oltre il dodicesimo anno e
similmente in altri comparti contrattuali. Tali periodi sono congruamente
ridotti in caso di dimissioni da parte del dirigente.
L’istituto del licenziamento del dirigente e
del relativo ristoro non è però di iter così semplice ed automatico, salvo
complicazioni, come nel caso normale del lavoro dipendente. Giusta causa e giustificato motivo, oggettivo
e soggettivo, fanno ugualmente parte delle motivazioni per il licenziamento del
dirigente, ma a questi si affianca una terza figura che la giurisprudenza ha
chiamato, anche per il diletto dei custodi della lingua, la “giustificatezza”
del licenziamento.
Di che cosa si tratta? Nell’azienda moderna,
anche di dimensioni medio-piccole, il rapporto tra la proprietà o vertici
aziendali ed il management deve esser considerato prevalentemente osmotico, nel
senso di uno scambio continuo ed interdipendente nella gestione di strategia
d’impresa; nel momento in cui si verificano cambiamenti della strategia, per
motivi di crescita, oppure di ridimensionamento, oppure anche d’intervenute
mutazioni del mercato di riferimento possono insorgere scollamenti tra azienda
e manager oppure anche inadeguatezza del manager stesso alle nuove condizioni.
In situazioni di questo genere, che sono abbastanza frequenti, l’interruzione
del rapporto col manager può essere considerata giustificata. Di ciò ha dato
atto la Cassazione a Sezioni Unite con ripetute sentenze, a partire dalla n.
7880 del 30 marzo 2007.
Il riconoscimento di tale giustificatezza è
comunque frutto di un procedimento attuato con un percorso di giustizia, ma che
però può essere preceduto da altri percorsi. Ad esempio nella generalità dei
contratti collettivi riguardanti la categoria dirigenziale viene previsto un
collegio di conciliazione e arbitrato, che ha la funzione di dirimere le
eventuali vertenze intercorrenti tra le parti in caso di licenziamento ed a cui
il dirigente può ricorrere se ritiene che il provvedimento risolutivo sia
ingiustificato. Se l’autorità giudiziaria o il collegio accolgono le ragioni
del ricorrente, ossia negando giusta causa, giustificato motivo o anche
giustificatezza del provvedimento, non è escluso che il dirigente possa essere
ugualmente licenziato con effetto immediato, ma in questo caso resta a carico
dell’azienda la corresponsione di un’indennità supplementare rispetto alle
normali competenze di fine rapporto; la misura di questa indennità è
generalmente collegata con le spettanze relative al preavviso, graduate secondo
l’anzianità, come specificate nei singoli contratti collettivi. A titolo di esempio
nel recente contratto dei dirigenti dell’industria che si muove, come è stato
puntualmente osservato, in sintonia con la filosofia del contratto a tutele
crescenti, si prevede per un’anzianità
aziendale fino a due anni la corresponsione di due mensilità come calcolate per
il preavviso, cioè maggiorate delle competenze accessorie e della media mensile
della retribuzione variabile, se presente; le mensilità possono arrivare fino a
otto da due a sei anni di anzianità; a dodici fino a dieci anni; a diciotto
fino a quindici anni e a ventiquattro oltre i quindici anni. Analoghe
disposizioni con gli stessi criteri, ma non necessariamente nella stessa
misura, valgono per i contratti degli altri settori che si ritiene superfluo
richiamare in questa sede.
Veniamo adesso alle implicazioni di natura
fiscale e contributiva di detta indennità. Si è sostenuto, in particolare con
alcuni ricorsi, l’esenzione da tassazione sia pure in forma separata, con la
motivazione principale che detta indennità fosse da considerarsi come il
ristoro di un danno immediato e risarcimento per la perdita del posto di
lavoro. Di diverso avviso nelle cause pilota sono stati i diversi gradi di
giudizio. La Cassazione in ultimo[2]
ha motivato più volte i suoi giudizi definitivi con l’argomento principale che,
come sostenuto dai ricorrenti, esisteva sì un danno emergente, ma di natura
retributiva e pertanto anche l’indennità, che trova la sua causa nel rapporto
di lavoro, ha la stessa natura retributiva, da assoggettare perciò a tassazione
separata. A dire il vero la stessa Corte
di Cassazione lascia una porta aperta ad ipotesi di non assoggettabilità a
tassazione dell’indennità in causa, qualora si sostenga e si riesca a provare
che si tratti di risarcimento puro e non derivi invece da ristoro di emolumenti
non percepiti. Dovendo perciò concludere su questo punto e stante la varietà
dei casi che si possono presentare, si può ragionevolmente affermare che l’indennità
per il licenziamento avvenuto anche dopo la pronuncia di ingiustificatezza da
parte del collegio di conciliazione e arbitrato, tranne l’ipotesi di cui sopra,
è normalmente da assoggettare a tassazione in forma separata a norma dell’art.
16 del dpr 917/86.
Dal punto di vista contributivo invece la
questione non si pone: lo afferma espressamente il nuovo testo dell’art. 18
della Legge 300, nel quale, dopo aver ricordato che la disciplina della
reintegrazione riguarda anche i dirigenti, si stabilisce che l’indennità
sostitutiva della reintegrazione non è assoggettata a contribuzione
previdenziale. Va da sé anche che la nuova formulazione dell’art. 18 non è
nella fattispecie del tutto innovativa in quanto si adegua a quanto già praticato
nella prassi amministrativa e riconosciuto dalla giurisprudenza. Ma la norma e
la prassi non possono essere ritenute del tutto esaustive. Infatti la parte
previdenziale è decisamente più complessa, perché interessa non solo la
previdenza istituzionale ormai gestita dall’Inps dopo la soppressione e
l’incorporazione dell’Inpdai, ma anche quella complementare gestita all’uopo da
fondi dedicati quali Previndai per l’industria, Mario Negri per il terziario e
via discorrendo: anche in questo caso occorre rifarsi alla prassi e questa
prevede che sia imponibile a questi fini l’indennità sostitutiva del preavviso,
ma non l’indennità supplementare.
Vale la pena infine di accennare
all’eventualità in cui sia il dirigente stesso a rassegnare le dimissioni: per
propria motivazione e non per motivazione “gentilmente richiesta”, né per
giusta causa o giustificato motivo. In questo caso si può sostenere che le
dimissioni abbiano una causa esterna, per esempio la possibilità di un altro
incarico più interessante; occorre perciò rispettare il preavviso contrattuale
oppure vedersene addebitare il corrispettivo. Tutto questo detto in linea
generale, anche se, esaminando l’eventualità contratto per contratto, si
possono rilevare differenze di prassi ed anche di conseguenze di carattere
retributivo. Senza dimenticare, in ogni eventualità, che il mostro telematico
ha colpito ancora, perché è sotto questa modalità, anche per i manager, che
unicamente può essere formalizzato il distacco dall’azienda.
Silla Cellino
[1] Un panorama esauriente
sulla materia è quello di Edgardo Ratti, Matteo Polaroli, Francesco Pau: Il licenziamento dei dirigenti in
“Italia Oggi Sette” del 9 settembre 2013; e molti altri interventi, per finire,
più di recente, Domenico Cannizzaro: Il licenziamento
del dirigente in Filodiritto.com, rivista giuridica on-line del 24 gennaio
2017.
[2] Si vedano in particolare
le sentenze 26385/2010 e, più recente, 1890/2015
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