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venerdì 2 giugno 2017

Licenziare un dirigente: quando e come, quanto costa, gli adempimenti fiscali e contributivi

pubblicato su Consulenza ed. Buffetti on-line del 20 aprile 2017

La vita del dirigente non è sempre quella del soggetto adagiato nella poltrona dietro la scrivania megalattica, che si diverte a torturare moralmente il povero Fantozzi di buona memoria. Anche i dirigenti hanno un’anima e soprattutto un corpo, professionale s’intende, su cui possono abbattersi i fulmini del datore di lavoro quando lo stesso ritenga l’operato del dirigente non più compatibile con la posizione che occupa e la responsabilità che ne deriva. In tal caso il dirigente può essere licenziato, per giusta causa, per giustificato motivo o, con una terminologia cui si è giunti anche per via di Cassazione, per giustificatezza del provvedimento
Si discute molto nella letteratura lavoristica sulla natura del licenziamento del dirigente, natura che sfugge alle ordinarie classificazioni tipiche del lavoro dipendente, anche se il lavoro dirigenziale è esso stesso da annoverarsi tra le fattispecie di lavoro dipendente, sia pure sui generis e come tale disciplinato nella contrattualistica. Salvo il caso di dimissioni, la contrattualistica stessa però non è uniforme riguardo le procedure di licenziamento, la relativa tempistica, le possibilità di ricorso o di opposizione, il trattamento economico conseguente al licenziamento effettivo.
Ad esempio nel contratto per i dirigenti dell’industria, mentre viene accolta l’ipotesi delle dimissioni del dirigente non vengono specificate le cause che possono dar luogo al licenziamento, riconducendone la possibilità alla disciplina operante per tutte le ipotesi di lavoro dipendente; nel contratto terziario, distribuzione e servizi esiste invece l’istituto del licenziamento, fermo restando che il datore di lavoro è tenuto ad indicarne contestualmente la motivazione; e così con diverse modalità nelle varie contrattazioni. Nella realtà pratica è anche d’uso che al dirigente, qualora per qualsiasi motivo arrivi a mancare la sintonia con la proprietà e quindi anche il vincolo fiduciario, vengano richieste le dimissioni, il che in termini pratici equivale ad un licenziamento, ma in termini giuridici darebbe luogo ad un’acquiescenza del dirigente alla volontà della controparte senza implicazioni di natura risarcitoria, a meno che non siano intercorsi accordi preventivi di carattere privato tra le parti.
Senza però dilungarci oltre su un argomento che richiede altra complessità di trattazione[1], preme in questa sede dire due parole sulle somme che vengono riconosciute al dirigente al momento della conclusione della sua esperienza per volontà del datore di lavoro e sul loro trattamento fiscale e contributivo, fermo restando che il trattamento di fine rapporto viene calcolato ed erogato secondo la norma generale attualmente in vigore. Infatti l’istituto del preavviso trova la sua applicazione anche in caso di dimissioni oppure di licenziamento del dirigente, così come lo è per la generalità del lavoro dipendente ed è regolato in misura variabile a seconda dei contratti collettivi di riferimento. Per citare i più praticati, nell’industria il preavviso di licenziamento è stabilito in otto mesi per un’anzianità di servizio fino a due anni e gradualmente aumentato per ogni anno successivo di anzianità; nel commercio e servizi da un minimo di sei mesi fino al quarto anno fino a dodici mesi oltre il dodicesimo anno e similmente in altri comparti contrattuali. Tali periodi sono congruamente ridotti in caso di dimissioni da parte del dirigente.
L’istituto del licenziamento del dirigente e del relativo ristoro non è però di iter così semplice ed automatico, salvo complicazioni, come nel caso normale del lavoro dipendente.  Giusta causa e giustificato motivo, oggettivo e soggettivo, fanno ugualmente parte delle motivazioni per il licenziamento del dirigente, ma a questi si affianca una terza figura che la giurisprudenza ha chiamato, anche per il diletto dei custodi della lingua, la “giustificatezza” del licenziamento.
Di che cosa si tratta? Nell’azienda moderna, anche di dimensioni medio-piccole, il rapporto tra la proprietà o vertici aziendali ed il management deve esser considerato prevalentemente osmotico, nel senso di uno scambio continuo ed interdipendente nella gestione di strategia d’impresa; nel momento in cui si verificano cambiamenti della strategia, per motivi di crescita, oppure di ridimensionamento, oppure anche d’intervenute mutazioni del mercato di riferimento possono insorgere scollamenti tra azienda e manager oppure anche inadeguatezza del manager stesso alle nuove condizioni. In situazioni di questo genere, che sono abbastanza frequenti, l’interruzione del rapporto col manager può essere considerata giustificata. Di ciò ha dato atto la Cassazione a Sezioni Unite con ripetute sentenze, a partire dalla n. 7880 del 30 marzo 2007.
Il riconoscimento di tale giustificatezza è comunque frutto di un procedimento attuato con un percorso di giustizia, ma che però può essere preceduto da altri percorsi. Ad esempio nella generalità dei contratti collettivi riguardanti la categoria dirigenziale viene previsto un collegio di conciliazione e arbitrato, che ha la funzione di dirimere le eventuali vertenze intercorrenti tra le parti in caso di licenziamento ed a cui il dirigente può ricorrere se ritiene che il provvedimento risolutivo sia ingiustificato. Se l’autorità giudiziaria o il collegio accolgono le ragioni del ricorrente, ossia negando giusta causa, giustificato motivo o anche giustificatezza del provvedimento, non è escluso che il dirigente possa essere ugualmente licenziato con effetto immediato, ma in questo caso resta a carico dell’azienda la corresponsione di un’indennità supplementare rispetto alle normali competenze di fine rapporto; la misura di questa indennità è generalmente collegata con le spettanze relative al preavviso, graduate secondo l’anzianità, come specificate nei singoli contratti collettivi. A titolo di esempio nel recente contratto dei dirigenti dell’industria che si muove, come è stato puntualmente osservato, in sintonia con la filosofia del contratto a tutele crescenti,  si prevede per un’anzianità aziendale fino a due anni la corresponsione di due mensilità come calcolate per il preavviso, cioè maggiorate delle competenze accessorie e della media mensile della retribuzione variabile, se presente; le mensilità possono arrivare fino a otto da due a sei anni di anzianità; a dodici fino a dieci anni; a diciotto fino a quindici anni e a ventiquattro oltre i quindici anni. Analoghe disposizioni con gli stessi criteri, ma non necessariamente nella stessa misura, valgono per i contratti degli altri settori che si ritiene superfluo richiamare in questa sede.
Veniamo adesso alle implicazioni di natura fiscale e contributiva di detta indennità. Si è sostenuto, in particolare con alcuni ricorsi, l’esenzione da tassazione sia pure in forma separata, con la motivazione principale che detta indennità fosse da considerarsi come il ristoro di un danno immediato e risarcimento per la perdita del posto di lavoro. Di diverso avviso nelle cause pilota sono stati i diversi gradi di giudizio. La Cassazione in ultimo[2] ha motivato più volte i suoi giudizi definitivi con l’argomento principale che, come sostenuto dai ricorrenti, esisteva sì un danno emergente, ma di natura retributiva e pertanto anche l’indennità, che trova la sua causa nel rapporto di lavoro, ha la stessa natura retributiva, da assoggettare perciò a tassazione  separata. A dire il vero la stessa Corte di Cassazione lascia una porta aperta ad ipotesi di non assoggettabilità a tassazione dell’indennità in causa, qualora si sostenga e si riesca a provare che si tratti di risarcimento puro e non derivi invece da ristoro di emolumenti non percepiti. Dovendo perciò concludere su questo punto e stante la varietà dei casi che si possono presentare, si può ragionevolmente affermare che l’indennità per il licenziamento avvenuto anche dopo la pronuncia di ingiustificatezza da parte del collegio di conciliazione e arbitrato, tranne l’ipotesi di cui sopra, è normalmente da assoggettare a tassazione in forma separata a norma dell’art. 16 del dpr 917/86.
Dal punto di vista contributivo invece la questione non si pone: lo afferma espressamente il nuovo testo dell’art. 18 della Legge 300, nel quale, dopo aver ricordato che la disciplina della reintegrazione riguarda anche i dirigenti, si stabilisce che l’indennità sostitutiva della reintegrazione non è assoggettata a contribuzione previdenziale. Va da sé anche che la nuova formulazione dell’art. 18 non è nella fattispecie del tutto innovativa in quanto si adegua a quanto già praticato nella prassi amministrativa e riconosciuto dalla giurisprudenza. Ma la norma e la prassi non possono essere ritenute del tutto esaustive. Infatti la parte previdenziale è decisamente più complessa, perché interessa non solo la previdenza istituzionale ormai gestita dall’Inps dopo la soppressione e l’incorporazione dell’Inpdai, ma anche quella complementare gestita all’uopo da fondi dedicati quali Previndai per l’industria, Mario Negri per il terziario e via discorrendo: anche in questo caso occorre rifarsi alla prassi e questa prevede che sia imponibile a questi fini l’indennità sostitutiva del preavviso, ma non l’indennità supplementare.
Vale la pena infine di accennare all’eventualità in cui sia il dirigente stesso a rassegnare le dimissioni: per propria motivazione e non per motivazione “gentilmente richiesta”, né per giusta causa o giustificato motivo. In questo caso si può sostenere che le dimissioni abbiano una causa esterna, per esempio la possibilità di un altro incarico più interessante; occorre perciò rispettare il preavviso contrattuale oppure vedersene addebitare il corrispettivo. Tutto questo detto in linea generale, anche se, esaminando l’eventualità contratto per contratto, si possono rilevare differenze di prassi ed anche di conseguenze di carattere retributivo. Senza dimenticare, in ogni eventualità, che il mostro telematico ha colpito ancora, perché è sotto questa modalità, anche per i manager, che unicamente può essere formalizzato il distacco dall’azienda.

Silla Cellino





[1] Un panorama esauriente sulla materia è quello di Edgardo Ratti, Matteo Polaroli, Francesco Pau: Il licenziamento dei dirigenti in “Italia Oggi Sette” del 9 settembre 2013; e molti altri interventi, per finire, più di recente, Domenico Cannizzaro: Il licenziamento del dirigente in Filodiritto.com, rivista giuridica on-line del 24 gennaio 2017.
[2] Si vedano in particolare le sentenze 26385/2010 e, più recente, 1890/2015

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