(pubblicato su www.pensalibero.it del 4 dicembre 2016)
Dobbiamo onestamente riconoscere che l’avvento di Trump alla Casa Bianca libera un po’ di fantasia in più: se avesse vinto Hillary ogni commento o supposizione sulla futura politica estera americana si sarebbe discostata poco da quello che abbiamo sempre detto o scritto su Obama; o qualche aggiustamento, ma nel complesso nel segno di una certa continuità. Ora invece l’opinione pubblica mondiale si sforza di capire cosa possa succedere in futuro, se cioè la nuova presidenza americana ribalterà i canoni ai quali sinora siamo stati abituati.
Non è un mistero infatti che per tutta la
campagna elettorale e fino alla sua imprevista elezione Trump non avesse una
linea organica di politica internazionale: presentava invece una serie di opzioni
larghe e poco precisate, che comunque trovavano riferimento e buona accoglienza
nei settori dell’elettorato a cui intendeva rivolgersi. Il vero impianto del
suo consenso Trump se lo è costruito sui temi di casa. Né d’altronde ciò deve
sorprendere, perché siamo più che altro noi europei ad essere interessati alla
politica americana per i suoi aspetti internazionali, poco curandoci del dibattito
che maggiormente coinvolge gli ambienti politici di quel paese, prevalentemente
di carattere interno, come peraltro succede per tutte le nazioni del mondo.
Perciò ricostruire le posizioni prima maniera
di Trump in politica internazionale è tutto sommato agevole, basato su pochi
punti, tutti di facile lettura e soprattutto ispirati da ciò che il suo potenziale
elettorato, più che pensare, voleva sentirsi dire. Più difficile sarà per gli
sviluppi futuri. Intanto riassumiamo le posizioni iniziali per chiarezza. In
primo luogo il problema delle relazioni commerciali e degli scambi, per il
quale durante la campagna per le primarie e quella elettorale il candidato
proponeva un’inversione di tendenza dal tradizionale liberismo americano ad una
sorta di neoprotezionismo, nuova release invocata per lo più dalla classe
medio-piccola bianca, impoverita forse, ma ancor più mortificata dalla perdita
di attenzione e d’importanza. In questa direzione anche i tea-party avevano a
suo tempo giocato un ruolo importante e naturalmente la loro influenza ha avuto
degli esiti non trascurabili, sia agli effetti culturali che a quelli pratici.
Segnatamente – e qui dobbiamo situare il
secondo punto – interessa a noi il rapporto che Trump vorrà instaurare con
l’Europa, problema non di poco conto, perché tra i temi delle negoziazioni
commerciali e quelli della cooperazione e della sicurezza il passo è breve e si
sa che l’Europa nel suo complesso ha sostenuto e fatta propria di fatto la
linea obamiana di contenimento rispetto al risveglio delle ambizioni della
Russia di Putin. Il tutto reso più complicato da un discutibile allargamento ad
Est dei confini istituzionali e soprattutto di quelli militari. Su questo punto
tanti commenti si sono sprecati e continueremo a parlarne a lungo, anche se il
tema dei rapporti Europa/America da tempo è passato in secondo piano e ci
sarebbe ancora rimasto se Putin non ci avesse messo lo zampino.
Infatti partite più decisive per lo svolgersi
e lo svilupparsi degli equilibri mondiali si giocano su altri scacchieri.
Casualmente proprio in questi giorni alcuni contatti telefonici del neo eletto
presidente con esponenti dell’est e del sud est asiatico fanno parlare e
stimolano congetture. Del resto in campagna elettorale Trump aveva
manifestamente parlato a favore dell’istituzione di dazi elevatissimi per
l’ingresso dei prodotti cinesi in USA, senza peraltro provocare reazioni
eccessive da parte di Pechino, preoccupata forse di salvaguardare i vantaggi
dell’equilibrio competitivo nell’area. Il problema però è che questo equilibrio
coinvolge una serie di potenze o di sottopotenze che si posizionano
diversamente rispetto alla Cina e nei suoi confronti; e che agiscono in nome e
per conto anche di una crescita progressiva in termini sia economici che
sociali, dettata da un accelerato sviluppo della media borghesia locale e dalle
sue aspirazioni. Poiché ciascuno di questi fenomeni si svolge nel proprio
contesto nazionale, ma proietta anche al di fuori certe conseguenze, le
complicazioni e gli attriti che ne derivano sono un fattore perturbante per
quell’equilibrio più o meno competitivo e contraddittorio, ma stabile, che
Pechino e Washington avevano inteso finora perseguire.
Un'altra questione di non trascurabile
importanza, che noi europei nel nostro eurocentrismo semi-allargato non
consideriamo, è quella del rapporto complessivo interamericano, mai stato
idilliaco ma che, con la presidenza Obama, insieme ai consueti focolai di tensione
aveva conosciuto anche momenti parziali di reciproca comprensione e
collaborazione, magari differenziati per area o nazioni e anche nel tempo. Sul
punto sono vere due cose: la prima che l’America Latina è ben lungi dal poter
essere considerata un’entità omogenea destinataria di un’unica politica; la
seconda che, pur nella loro diversità e anche con le reciproche rivalità, tutti i paesi dell’area
vivono con gli USA un rapporto normalmente conflittuale. Nel suo programma
Trump ha preso in carico il subcontinente solo sotto l’aspetto latinos con i connessi problemi relativi
all’immigrazione, sottovalutando il fitto scambio di relazioni commerciali tra
il suo paese e tutta l’area nelle sua complessità. Né può essere dimenticato
che l’area è estremamente diversificata riguardo ai regimi che la governano ed
ai rapporti che ciascuno singolarmente intrattiene con la potenza nordamericana.
Ho volutamente lasciato per ultimo lo stato
permanente di guerra nel Medio Oriente, che comunque coinvolge gran parte del
Mediterraneo sia per la presenza di organizzazioni terroristiche in quasi tutta la sponda nordafricana, sia per il
delicato problema degli emigranti e dei profughi, con relative tensioni, nei
paesi europei che vi si affacciano. Le contraddizioni di Trump nel suo programma
sull’area sono fuori discussione: da una parte sostiene apertamente e per
intero le ragioni di Israele nella questione palestinese, dall’altra il
rapporto che intende allacciare con Putin non può valere solo per l’Europa, ma
potrà costringerlo a valutare bene anche i rapporti con l’Iran che di Putin è
tradizionale riferimento nella regione, oltre che storico nemico d’Israele. E
l’intenzione recentemente manifestata di far marcia indietro sull’accordo
nucleare con quel paese non può che aggiungere incertezza a incertezza e
confusione a confusione.
Teniamo tutto bene a mente. E parliamone ancora.
Silla
Cellino
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