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sabato 3 dicembre 2016

Trump, l’America e il resto del mondo: appuntiamoci un promemoria

(pubblicato su www.pensalibero.it del 4 dicembre 2016)

Dobbiamo onestamente riconoscere che l’avvento di Trump alla Casa Bianca libera un po’ di fantasia in più: se avesse vinto Hillary ogni commento o supposizione sulla futura politica estera americana si sarebbe discostata poco da quello che abbiamo sempre detto o scritto su Obama; o qualche aggiustamento, ma nel complesso nel segno di una certa continuità. Ora invece l’opinione pubblica mondiale si sforza di capire cosa possa succedere in futuro, se cioè la nuova presidenza americana ribalterà i canoni ai quali sinora siamo stati abituati.

Non è un mistero infatti che per tutta la campagna elettorale e fino alla sua imprevista elezione Trump non avesse una linea organica di politica internazionale: presentava invece una serie di opzioni larghe e poco precisate, che comunque trovavano riferimento e buona accoglienza nei settori dell’elettorato a cui intendeva rivolgersi. Il vero impianto del suo consenso Trump se lo è costruito sui temi di casa. Né d’altronde ciò deve sorprendere, perché siamo più che altro noi europei ad essere interessati alla politica americana per i suoi aspetti internazionali, poco curandoci del dibattito che maggiormente coinvolge gli ambienti politici di quel paese, prevalentemente di carattere interno, come peraltro succede per tutte le nazioni del mondo.

Perciò ricostruire le posizioni prima maniera di Trump in politica internazionale è tutto sommato agevole, basato su pochi punti, tutti di facile lettura e soprattutto ispirati da ciò che il suo potenziale elettorato, più che pensare, voleva sentirsi dire. Più difficile sarà per gli sviluppi futuri. Intanto riassumiamo le posizioni iniziali per chiarezza. In primo luogo il problema delle relazioni commerciali e degli scambi, per il quale durante la campagna per le primarie e quella elettorale il candidato proponeva un’inversione di tendenza dal tradizionale liberismo americano ad una sorta di neoprotezionismo, nuova release invocata per lo più dalla classe medio-piccola bianca, impoverita forse, ma ancor più mortificata dalla perdita di attenzione e d’importanza. In questa direzione anche i tea-party avevano a suo tempo giocato un ruolo importante e naturalmente la loro influenza ha avuto degli esiti non trascurabili, sia agli effetti culturali che a quelli pratici.

Segnatamente – e qui dobbiamo situare il secondo punto – interessa a noi il rapporto che Trump vorrà instaurare con l’Europa, problema non di poco conto, perché tra i temi delle negoziazioni commerciali e quelli della cooperazione e della sicurezza il passo è breve e si sa che l’Europa nel suo complesso ha sostenuto e fatta propria di fatto la linea obamiana di contenimento rispetto al risveglio delle ambizioni della Russia di Putin. Il tutto reso più complicato da un discutibile allargamento ad Est dei confini istituzionali e soprattutto di quelli militari. Su questo punto tanti commenti si sono sprecati e continueremo a parlarne a lungo, anche se il tema dei rapporti Europa/America da tempo è passato in secondo piano e ci sarebbe ancora rimasto se Putin non ci avesse messo lo zampino.

Infatti partite più decisive per lo svolgersi e lo svilupparsi degli equilibri mondiali si giocano su altri scacchieri. Casualmente proprio in questi giorni alcuni contatti telefonici del neo eletto presidente con esponenti dell’est e del sud est asiatico fanno parlare e stimolano congetture. Del resto in campagna elettorale Trump aveva manifestamente parlato a favore dell’istituzione di dazi elevatissimi per l’ingresso dei prodotti cinesi in USA, senza peraltro provocare reazioni eccessive da parte di Pechino, preoccupata forse di salvaguardare i vantaggi dell’equilibrio competitivo nell’area. Il problema però è che questo equilibrio coinvolge una serie di potenze o di sottopotenze che si posizionano diversamente rispetto alla Cina e nei suoi confronti; e che agiscono in nome e per conto anche di una crescita progressiva in termini sia economici che sociali, dettata da un accelerato sviluppo della media borghesia locale e dalle sue aspirazioni. Poiché ciascuno di questi fenomeni si svolge nel proprio contesto nazionale, ma proietta anche al di fuori certe conseguenze, le complicazioni e gli attriti che ne derivano sono un fattore perturbante per quell’equilibrio più o meno competitivo e contraddittorio, ma stabile, che Pechino e Washington avevano inteso finora perseguire.

Un'altra questione di non trascurabile importanza, che noi europei nel nostro eurocentrismo semi-allargato non consideriamo, è quella del rapporto complessivo interamericano, mai stato idilliaco ma che, con la presidenza Obama, insieme ai consueti focolai di tensione aveva conosciuto anche momenti parziali di reciproca comprensione e collaborazione, magari differenziati per area o nazioni e anche nel tempo. Sul punto sono vere due cose: la prima che l’America Latina è ben lungi dal poter essere considerata un’entità omogenea destinataria di un’unica politica; la seconda che, pur nella loro diversità e anche con le  reciproche rivalità, tutti i paesi dell’area vivono con gli USA un rapporto normalmente conflittuale. Nel suo programma Trump ha preso in carico il subcontinente solo sotto l’aspetto latinos con i connessi problemi relativi all’immigrazione, sottovalutando il fitto scambio di relazioni commerciali tra il suo paese e tutta l’area nelle sua complessità. Né può essere dimenticato che l’area è estremamente diversificata riguardo ai regimi che la governano ed ai rapporti che ciascuno singolarmente intrattiene con la potenza nordamericana.

Ho volutamente lasciato per ultimo lo stato permanente di guerra nel Medio Oriente, che comunque coinvolge gran parte del Mediterraneo sia per la presenza di organizzazioni terroristiche in quasi  tutta la sponda nordafricana, sia per il delicato problema degli emigranti e dei profughi, con relative tensioni, nei paesi europei che vi si affacciano. Le contraddizioni di Trump nel suo programma sull’area sono fuori discussione: da una parte sostiene apertamente e per intero le ragioni di Israele nella questione palestinese, dall’altra il rapporto che intende allacciare con Putin non può valere solo per l’Europa, ma potrà costringerlo a valutare bene anche i rapporti con l’Iran che di Putin è tradizionale riferimento nella regione, oltre che storico nemico d’Israele. E l’intenzione recentemente manifestata di far marcia indietro sull’accordo nucleare con quel paese non può che aggiungere incertezza a incertezza e confusione a confusione.

Teniamo tutto bene a mente. E parliamone ancora.

Silla Cellino


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