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domenica 22 novembre 2015

Terrorismo, guerra in Europa e convitati di pietra


(pubblicato su http://www.pensalibero.it/blog/2015/11/22/terrorismo-guerra-in-europa-e-convitati-di-pietra/)

Lo ammetto, è un’espressione un po’ forte, però in qualche modo rende l’idea. E anche se non proprio un convitato di pietra, il dilemma è se gli Stati Uniti debbano essere considerati una presenza assente oppure un’assenza presente nella crisi internazionale legata al fenomeno Isis. Magari, se riguardato da un loro possibile punto di vista, questo atteggiamento incerto e dubitoso potrebbe non apparire del tutto immotivato. Innanzi tutto contano infatti le lezioni del passato: per diverse ragioni e per sbocchi altrettanto diversi ma egualmente deludenti, le precedenti esperienze dopo gl’interventi in Iraq ed in Afganistan non autorizzano ad essere molto soddisfatti. Esperienze tra l’altro ancora in corso, anche se con forme diverse dal  primo momento: in Afganistan le difficoltà ad uscirne anche con un minimo successo sono sotto gli occhi di tutti, in Iraq si può parlare addirittura di fallimento come dimostra l’insorgenza e l’affermarsi dell’Isis, fenomeno in tanta misura riconducibile allo sbandamento dell’esercito iracheno, come pure a quello del già fragile tessuto sociale e anche delle colonne portanti politiche di quel paese, ma che fa risalire le sue radici proprio all’intervento Usa, semplicemente distruttivo.

E non si può dire che la linea attendista manchi di continuità, sia pure limitata agli ultimi anni, in particolare sotto la presidenza Obama. Il tutto dimostrato da tante consapevoli non scelte già al tempo delle cosiddette primavere arabe, dall’intervento ispirato ma non direttamente eseguito in Libia, passando anche per l’ambiguità dei legami con le potenze regionali della penisola arabica e del golfo (ma questo meriterebbe tutto un capitolo a parte, sul quale in seguito possiamo anche tornare) e finendo, momentaneamente, fino alle non scelte di ora, se da intendersi in termini direttamente operativi sulla questione Siria/Isis, problema che invece la Russia ha cominciato ad affrontare a modo suo.

Nel mio precedente intervento, peraltro scritto proprio alla vigilia dei dolorosi avvenimenti di Parigi, avevo cercato di ragionare sulle motivazioni di carattere generale relative a questa parziale assenza d’impegno; motivazioni e ragioni che investono la politica planetaria e non di un solo anche se determinante scacchiere e che tuttora conservano la loro importanza. Ma dopo Parigi l’opinione pubblica mondiale, di cui quella europea rappresenta, anche da un punto di vista emozionale, una parte importante, si attende a torto o ragione - e anche al di là dei convincimenti politici ufficiali e delle scelte conseguenti - qualcosa di più che un semplice sostegno esterno senza intervento diretto. Temo che queste attese andranno deluse per una serie di ragioni, che per brevità enumero solo senza svilupparle, anche se varrebbe la pena rifletterci un po’ più approfonditamente.

In primo luogo per i legami privilegiati, di natura economica palese e sotterranea, che gli Usa intrattengono con gli stati della penisola araba, i quali a loro volta rivelano molte ambiguità nei loro rapporti con la vicenda canaglia dell’Isis. Si parla di forniture belliche, un po’ meno di petrolio, di interessi comuni nei grandi network internazionali. Questi legami mettono in difficoltà gli Stati Uniti ad agire direttamente su una situazione, quale quella del califfato islamico con la quale alcune monarchie della penisola hanno rapporti forse non confessati, però noti.

Inoltre non trovano nell’Europa un partner forte in grado di dare una risposta comune, divisa com’è tra la giustificabile emotività francese e l’atteggiamento comprensivo ma prudente di altri paesi tra cui l’Italia; con il rischio possibile e in parte attuale che il decisionismo russo faccia da traino anche per paesi europei che scelgano di muoversi autonomamente, ciò che già avviene per quanto riguarda la Francia.

In più la fase preelettorale, che in America per tradizione è molto lunga, specie alla scadenza del secondo quadriennio presidenziale, costituisce un freno oggettivo per qualsiasi scelta che non sia da considerarsi di breve momento. E’ vero che il candidato più accreditato nel campo democratico spinge fortemente per una strategia più attiva, ma per ora sta conducendo una battaglia da sola e se nello schieramento antagonista si trova chi si possa schierare a favore di un intervento diretto, il rischio è che si possano riproporre situazioni già viste e sperimentate con le possibili conseguenze.
                                          
Il massimo che ci potremo aspettare per l’immediato potrà perciò partire solo dallo sviluppo delle linea strategica sinora adottata dall’amministrazione americana, potenziato forse nell’impegno di assistenza e consulenza alle forze direttamente impegnate, magari anche forniture di materiale bellico, ma mantenuto nella stessa linea di dottrina finora adottata; anche una fase diplomatica per fare chiarezza tra i paesi dell’area per i reciproci rapporti e per quelli più o meno sotterranei che gli stessi hanno con l’Isis; ed anche un’altra fase per far digerire il punto di equilibrio raggiunto con l’altra potenza dirimpettaia del golfo, guarda caso sciita.

Silla Cellino


Post Scriptum. Approfitto dell’occasione per dichiarami poco d’accordo con una interpretazione che ha validi riscontri, però, se accettata acriticamente oppure in modo quasi esclusivo, potrebbe alla lunga diventare pericolosa, cioè quella che tutto sommato si tratti solo di un conflitto interno tra le anime del movimento islamico, che forse nelle loro sfumature sono più di due. E’ una tesi che in questi tragici giorni è stata sostenuta su Limes, la nota rivista di geopolitica, dal sottosegretario agli Esteri Mario Giro e che ha trovato molti consensi. E’ ormai di conoscenza comune che c’è una lotta per la vera verità tra l’anima sunnita e quella sciita di quella confessione e che questa lotta duri da tempo indefinito con origini secolari; ma col tempo e con l’avanzamento delle conoscenze e dei rapporti internazionali questa lotta ha perso gran parte delle sue caratteristiche prevalentemente tribali per raggiungere lo status di veri e propri conflitti di potenza, sia pur di carattere regionale. Prova ne sia che la componente sciita, dall’Iran alla Siria, trova adeguata protezione dall’ombrello di Putin a sua volta disturbato al suo interno dall’esistenza di sunniti e sciiti nel Caucaso e dintorni; che invece quella sunnita sia molto più articolata e forse dispersa a livello di almeno due continenti. Perciò guerra di religione va bene solo per chi alle religioni ci crede. Chi ci crede un po’ di meno può anche pensare che ci sia qualcos’altro.

Altro Post Scriptum. Vorrei poi accennare ad un’altra questione, di natura politica, che ci riguarda più da vicino. Ne ha parlato  in un recente articolo Franco Camarlinghi: esiste un atteggiamento in alcuni settori della  sinistra che interpreta il tutto come originato dalla questione israelo-palestinese, naturalmente con annessa esclusiva responsabilità israeliana. Camarlinghi fa risalire alla guerra dei sei giorni nel 1967 il mutato atteggiamento di gran parte della sinistra nei confronti d’Israele, prima occupato dalla memoria dell’olocausto e un po’ – aggiungo io - anche dal fascino dell’esperienza collettivista e autogestita dei kibbuz. Ricordo che a quell’epoca anch’io, da giovane socialista, ero più per comprendere le ragioni dei palestinesi che erano politiche e non religiose, né tuttora ritengo di dover riconsiderare le mie ragioni di allora che mi posero in contrasto con i miei compagni anche all’interno della stessa sinistra socialista. Sono dell’opinione che anche oggi la questione palestinese abbia una ragione politica e non religiosa, anche se poi i rispettivi integralismi politici e religiosi trovano spazio sufficiente per farsi male l’un l’altro, ma anche che la stessa questione sia solo una delle componenti – e al momento non decisiva – della crisi generale dell’area in cui si giocano interessi che vanno al di là di Gerusalemme, della striscia di Gaza e della Palestina. Ed è su questo che questa certa sinistra, anche a proposito di Israele, deve ragionare.


s.c.

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