Avvertenza:
Queste note, pubblicate il 15 novembre su www.pensalibero.it, sono state scritte
poche ore prima dei tragici avvenimenti di Parigi. Il più ampio scenario preso
in considerazione era diretto ad individuare alcune componenti
dell’atteggiamento Usa che appare impegnato di malavoglia e anche in maniera
contraddittoria su uno scacchiere mediorientale dominato dalla questione Isis.
Fare previsioni è sempre pericoloso e spesso non ci s’indovina, però si possono
fare degli auspici e questi vanno nella direzione di un intervento non solo
americano, ma generalizzato, per annientare almeno militarmente e
territorialmente l’Isis e tornare anche a livello mondiale a ragionare in
termini di politica – più o meno forte – e non di terrorismo. Quest’ultimo sarà
duro da estirpare, poiché siamo consapevoli che jihad e Isis hanno
origine e natura diversa, ma cancellare l’equivoco Isis potrà servire per lo meno a
riportare l’area mediorientale a quei livelli di dialettica politica e in tanti
casi anche di scontro armato che negli ultimi decenni gli equilibri mondiali ce
l’hanno fatta a digerire. [s.c.]
Fermi
tutti, abbiamo scherzato. In questi ultimi anni trascorsi abbiamo guardato al
susseguirsi degli avvenimenti mondiali in modo un po’ piagnone, affermando che
la politica dei blocchi e della guerra fredda non c’era più e magari ne eravamo
anche nostalgici, nella certezza o nella fiducia che non sarebbe mai scoppiata
quella calda e questo ci faceva stare un po’ tranquilli. E invece poi alla fine
ci accorgiamo che magari non c’è la guerra fredda più o meno latente, ma i
blocchi (le potenze) ci sono ancora e sempre nella logica di certi blocchi e/o
potenze agiscono e interagiscono tante situazioni che a prima vista ci potrebbero
apparire come nuove. O meglio, a quelle che effettivamente sono nuove si
continua a dare risposte sempre nell’ambito delle logiche tradizionali. Magari
all’interno dei due schieramenti può cambiare qualche attore o qualcun altro
diversifica atteggiamenti, ma si continua comunque a fare riferimento a due
schieramenti che si muovono attorno ai due poli leader.
Che
cosa vuol dire? Vuol dire che oggi ci sono emergenze di grande peso, prima tra
tutte quella nell’area mediorientale, dove i conflitti sono più d’uno e
s’incrociano, anche con logiche a prima vista non sempre comprensibili. In
questo scacchiere, come in altri o nella medesima area con diversi protagonisti
rispetto al passato, arrivano a confrontarsi nuovamente le due tendenze e
ognuna punta a risolvere il conflitto, anzi i conflitti, in maniera diversa, ognuna
privilegia alleati, gli uni che si contrappongono agli altri.
Però
in altri tempi gli Stati Uniti non avrebbero esitato ad intervenire risolutamente
e militarmente nei confronti dello stato islamico, prima ancora che lo facesse
Putin. La stessa Russia sarebbe stata messa in difficoltà da un intervento
americano, che certo non sarebbe passato per un sostegno ad Assad, anzi. Questa
impressione si rafforza se si pone attenzione al dibattito in corso per le
candidature alle prossime elezioni presidenziali, più in campo repubblicano che
in quello democratico, dove si rintracciano linee di divisione correnti tra chi
avverte l’emergenza del momento ed il rischio del perdurare di una situazione
fuori controllo e coloro che invece guardano più in là dell’emergenza Isis, ponendo
l’accento sulle preoccupazione riguardanti il complesso sistema di rapporti
nell’intera area. Sullo sfondo l’atteggiamento da mantenere nei confronti del
vecchia potenza rivale, ex Unione Sovietica, oggi più che mai decisa a ribadire
la propria tradizionale influenza in quello scacchiere, anche e soprattutto per
motivazioni geopolitiche, espressione ormai abusata, ma tornata prepotentemente
di attualità dopo la caduta del Muro.
Il
sistema di rapporti però non si esaurisce qui: è sulla leadership americana che
si ragiona ponendo mente alla situazione generale dell’assetto mondiale oltre
che a quella particolare delle drammatiche vicende del Medio Oriente. Tralasciando
l’America Latina, che nella politica statunitense è d’importanza vitale, ma
costituisce un capitolo a parte, è l’evoluzione dei rapporti ad oriente che
maggiormente viene presa in considerazione nei circoli della politica estera USA.
La
ragione è che si assiste al manifestarsi di diversi fenomeni, di cui alcuni possono
avere una spiegazione comune o comunque motivazioni collegate. In primo piano e
in sostanza c’è il processo di riavvicinamento russo-cinese. Già in essere da
almeno un decennio, questo processo guadagna ora nuovi spazi, con il
riconoscimento da parte russa del nuovo ruolo che la Cina riveste in qualità di
potenza mondiale, non solo economica, corroborato dalle operazioni militari
congiunte, dagli accordi e dagli interscambi sempre più frequenti, soprattutto
sul piano energetico, cui le due realtà, per ragioni reciproche, sono molto
attente. Inoltre la Cina stessa si trova a dover far fronte a pesanti
controversie territoriali sul versante dei vicini orientali che coinvolgono
Vietnam, Filippine, Giappone e di riflesso gli Stati Uniti da sempre
interessati all’area, mentre resta ancora da valutare quello che accadrà dopo
il probabile mutamento di regime e di indirizzi conseguente alle recenti
elezioni in Myanmar, o Birmania che dir si voglia, paese che ha avuto ed ha un
ruolo non del tutto ininfluente per gli equilibri dell’area e di un nuovo gioco
asiatico conseguente. Tutto ciò ha portato, per quanto riguarda la Cina, ad
un’intensificazione degli investimenti militari sul piano marittimo e ad una
riduzione delle forze terrestri, già in passato considerate in una certa misura
anche in funzione di garanzia nei confronti dell’altro colosso euro-asiatico. E
ancora l’argomento delle forniture energetiche, a cui la Cina è sempre
assolutamente sensibile, fa sì che vengano stabiliti o intensificati rapporti
con i paesi fornitori e che all’interno di questi si possa scegliere, come avviene
nel caso di Teheran, il che ci riporta nuovamente a Mosca, in quanto comuni
amici dell’area sciita.
Si
capisce perciò la rinnovata attenzione degli Stati Uniti verso ciò che accade
su quell’asse e sull’influenza che tutto può comportare sulla politica
mondiale. Il potenziamento di questa intesa di fatto tra le due potenze
euroasiatiche non porta automaticamente – ma neppure in ipotesi - ad una
riproposizione della guerra fredda, così come l’abbiamo intesa nei decenni che
hanno seguito la seconda guerra mondiale. Porta però ad una ricostituzione di
ruoli anche nel campo delle urgenze
attuali della situazione internazionale. Ricostituzione da cui sarà logico
attendersi sviluppi. E non è detto che debbano essere per forza negativi.
Si
potrebbe anche continuare. Solo però un’ultima annotazione, anche se
d’importanza relativa. Dalla logica e forse anche dalle conseguenze attive, ma probabilmente
non da quelle passive, di queste riconsiderazioni l’Europa resta al margine. A
parziale giustificazione si può argomentare che al momento si trova in una fase
difensiva per l’emergenza profughi e le incertezze sull’accoglienza; e anche di
ripiego dopo gli incauti ottimismi dell’allargamento dei confini orientali. Ma
questo è un altro discorso.
Silla Cellino
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