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venerdì 11 luglio 2014

Un articolo di cinque anni fa che scrissi per Pensalibero

Ho ritrovato casualmente un articolo che nel 2009 scrissi per pensalibero.it, il blog del Gruppo dei Centouno di ispirazione socialista e liberale. Sono passati cinque anni, ma molte cose mi sembra siano ancora del tutto attuali. Lo ripropongo per i lettori di buona volontà.


L'EUROPA, IL SOCIALISMO DEMOCRATICO E D'ALEMA


Nell'ultimo numero di "Limes", la nota rivista di politica internazionale diretta da Lucio Caracciolo, si celebra monotematicamente la ricorrenza ventennale della caduta del Muro. L’analisi di base è su ciò che succede “ad Ovest di Berlino”, com’è il tema della presente occasione, ma lo sguardo traverso è diretto all'Europa nel suo complesso. La tesi di fondo, che è arduo non condividere, è che l'Europa sia stata presa alla sprovvista dall'implosione del sistema comunista, che questo non sia caduto per effetto dei colpi portati dal sistema occidentale, ma prevalentemente per le sue contraddizioni interne e per l'interna debolezza che non consentiva più di risolvere i problemi unicamente con la forza, come a Berlino, Budapest, Praga o, in modo più pilotato, in Polonia.
Premessa necessaria di questa interpretazione è che di fatto l'Europa subisce ancora le influenze del passato, ha un presente poco definito, un futuro ancora tutto da inventare. L'Europa del passato nasce anche come attore della guerra fredda, in parte voluta dagli USA e sua partner nel confronto-scontro con l'Unione Sovietica. Un'Europa che non ha mai saputo o talvolta voluto elevarsi a potenza, lasciando e tollerando che il concetto di potenza riguardasse singoli tentativi, fuori dal tempo, come nel caso della Francia dall'improbabile grandeur o dell'Inghilterra tatcheriana.
Oggi le condizioni internazionali liberano per l'Europa uno spazio diversamente protagonista, spazio favorito anche dalla realtà di una dimensione più consistente ed importante, anche dal punto di vista quantitativamente geografico. Attualmente una parte delle nazioni e delle popolazioni che si sono affrancate dal giogo sovietico fa parte dell'Europa anche istituzionalmente, tuttavia non può dirsi che sia avvenuta anche un'integrazione economica e sociale, ma soprattutto culturale, perché è mancato fin dall'inizio, fin dalla premessa, un terreno su cui confrontarsi e costruire una prospettiva comune. Ma i problemi che c’erano allora, alla caduta del Muro, per la maggior parte non sono più gli stessi: allora si doveva costruire un rapporto con gli stati liberati dall’influenza sovietica, dialogando sulla loro occidentalizzazione ed assimilazione ad un modello europeo comunque esistente su un piano economico-sociale, sia pur subalterno sul piano politico, facendo leva anche sullo stato di profonda crisi e prostrazione della Russia scaturente dal disfacimento dell’Unione sovietica. Oggi questo modello non è più valido. Gli stati ex vassalli sono permeati di micronazionalismi, alimentati anche da rivalità che riproducono quelle preesistenti e non sopite da quarant’anni di socialismo reale, nonché da condizioni di vita e socio-economiche ancora precarie rispetto al modello dell’Europa occidentale e che vent’anni di libertà non hanno consentito ancora di avvicinare. La Russia invece ha ritrovato una stabilità con un assetto politico forte, benché discusso, ma soprattutto fa leva sulla sua potenza in campo energetico per riproporre un’influenza sul continente, di tipo nuovo, ma ugualmente da considerare primaria.
Quale peso può avere questa situazione sulla candidatura di Massimo D’Alema alla nuova figura istituzionale che in pratica costituisce l'incarico di ministro degli Esteri dell’Europa? Essere ministro degli Esteri dell'Europa solo in parte vorrà dire confrontarsi con i problemi della costruzione europea, ma le questioni immediatamente vicine, ossia i rapporti con l'altra Europa, investono direttamente molte delle problematiche di cui abbiamo sinora parlato. Nell’editoriale scritto per l’ultimo numero della sua rivista “Italiani Europei” D’Alema affronta solo incidentalmente l'argomento, inserendolo, a ragione, nel quadro più ampio dei mutamenti che hanno interessato l’intera società, non solo quella occidentale, per effetto della globalizzazione e delle risposte in termini strategici che ad essa sono state date. Ammette però che ci sia stata una risposta di basso profilo da parte dell’Europa alla domanda nuova che coinvolgeva, in contemporanea per il nostro continente, il nuovo assetto politico con relative implicazioni sociali e le relazioni con le forze e gli avvenimenti esterni. Riconosce anche che la socialdemocrazia avrebbe potuto giocare un ruolo importante verso la fine degli anni novanta e che invece ha completamente disilluso le aspettative che si erano formate, proprio perché alcuni venti di modernizzazione, anziché ricompattare gli strati sociali a cui è diretta per destinazione ed attrarre nuove componenti come rimedio alle disuguaglianze sociali crescenti indotte dalle regole del capitalismo globale, hanno preferito rincorrere illusioni neoliberali. Lasciando libero campo alla destra che, quanto alla visione europea, consente ampio spazio alle convenienze dei singoli stati.
A questo punto, dopo le insufficienze degli anni novanta e le difficoltà attuali, è logico presumere la necessità di un nuovo progetto del socialismo democratico a dimensione e ruolo europei. Di fatto questa dimensione e questo ruolo si sono esauriti nella ost-politik di  Willy Brandt, che però era una real-politik, un dialogo tra sistemi con l'Unione sovietica, che non prevedeva rapporti con gli ambienti democratici dell'est; una politica che poteva piacere all'allora partito comunista, ma che mortificava le tensioni dei socialisti volte a sostenere, nella libertà, un sistema sociale e di benessere alternativo a quello sovietico. Oggi, se la real-politik continua ad avere un senso per quanto riguarda i rapporti tra sistemi, quello dell'Europa comunitaria e quello dell'altra Europa, altrettanto non può dirsi per gli equilibri interni, dove le forze della sinistra sono costrette a confrontarsi con nuove dinamiche del lavoro, nuove disuguaglianze e quindi nuovi problemi sociali che ci riportano indietro rispetto agli equilibri raggiunti verso la fine del secolo scorso.
D'Alema ammette che esistano queste condizioni ed auspica la riproposizione, anche a livello europeo, di un moderno conflitto sociale e la creazione di una nuova forza progressista europea che superi il basso profilo degli ultimi anni. Ma ciò che è difficile condividere nelle proposte di D'Alema è che l'analisi che egli fa di queste forze progressiste abbia una dimensione mondiale, mescolando Obama, il Giappone e, chissà, forse anche Chavez; e trascurando invece che la società europea abbia nella sua profondità strutture ben diverse da quelle degli altri paesi negli altri continenti. Ciò che invece per la socialdemocrazia europea legittima una riproposizione rinnovata e non il suo de profundis.


Silla Cellino

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