Ho ritrovato casualmente un articolo che nel 2009 scrissi per pensalibero.it, il blog del Gruppo dei Centouno di ispirazione socialista e liberale. Sono passati cinque anni, ma molte cose mi sembra siano ancora del tutto attuali. Lo ripropongo per i lettori di buona volontà.
L'EUROPA, IL
SOCIALISMO DEMOCRATICO E D'ALEMA
Nell'ultimo
numero di "Limes", la nota rivista di politica internazionale diretta
da Lucio Caracciolo, si celebra monotematicamente la ricorrenza ventennale
della caduta del Muro. L’analisi di base è su ciò che succede “ad Ovest di
Berlino”, com’è il tema della presente occasione, ma lo sguardo traverso è
diretto all'Europa nel suo complesso. La tesi di fondo, che è arduo non
condividere, è che l'Europa sia stata presa alla sprovvista dall'implosione del
sistema comunista, che questo non sia caduto per effetto dei colpi portati dal
sistema occidentale, ma prevalentemente per le sue contraddizioni interne e per
l'interna debolezza che non consentiva più di risolvere i problemi unicamente
con la forza, come a Berlino, Budapest, Praga o, in modo più pilotato, in
Polonia.
Premessa
necessaria di questa interpretazione è che di fatto l'Europa subisce ancora le
influenze del passato, ha un presente poco definito, un futuro ancora tutto da
inventare. L'Europa del passato nasce anche come attore della guerra fredda, in
parte voluta dagli USA e sua partner nel confronto-scontro con l'Unione
Sovietica. Un'Europa che non ha mai saputo o talvolta voluto elevarsi a
potenza, lasciando e tollerando che il concetto di potenza riguardasse singoli
tentativi, fuori dal tempo, come nel caso della Francia dall'improbabile
grandeur o dell'Inghilterra tatcheriana.
Oggi
le condizioni internazionali liberano per l'Europa uno spazio diversamente
protagonista, spazio favorito anche dalla realtà di una dimensione più
consistente ed importante, anche dal punto di vista quantitativamente geografico.
Attualmente una parte delle nazioni e delle popolazioni che si sono affrancate
dal giogo sovietico fa parte dell'Europa anche istituzionalmente, tuttavia non
può dirsi che sia avvenuta anche un'integrazione economica e sociale, ma
soprattutto culturale, perché è mancato fin dall'inizio, fin dalla premessa, un
terreno su cui confrontarsi e costruire una prospettiva comune. Ma i problemi
che c’erano allora, alla caduta del Muro, per la maggior parte non sono più gli
stessi: allora si doveva costruire un rapporto con gli stati liberati
dall’influenza sovietica, dialogando sulla loro occidentalizzazione ed
assimilazione ad un modello europeo comunque esistente su un piano
economico-sociale, sia pur subalterno sul piano politico, facendo leva anche
sullo stato di profonda crisi e prostrazione della Russia scaturente dal disfacimento
dell’Unione sovietica. Oggi questo modello non è più valido. Gli stati ex vassalli
sono permeati di micronazionalismi, alimentati anche da rivalità che
riproducono quelle preesistenti e non sopite da quarant’anni di socialismo
reale, nonché da condizioni di vita e socio-economiche ancora precarie rispetto
al modello dell’Europa occidentale e che vent’anni di libertà non hanno
consentito ancora di avvicinare. La
Russia invece ha ritrovato una stabilità con un assetto
politico forte, benché discusso, ma soprattutto fa leva sulla sua potenza in
campo energetico per riproporre un’influenza sul continente, di tipo nuovo, ma
ugualmente da considerare primaria.
Quale
peso può avere questa situazione sulla candidatura di Massimo D’Alema alla
nuova figura istituzionale che in pratica costituisce l'incarico di ministro
degli Esteri dell’Europa? Essere ministro degli Esteri dell'Europa solo in
parte vorrà dire confrontarsi con i problemi della costruzione europea, ma le
questioni immediatamente vicine, ossia i rapporti con l'altra Europa, investono
direttamente molte delle problematiche di cui abbiamo sinora parlato.
Nell’editoriale scritto per l’ultimo numero della sua rivista “Italiani
Europei” D’Alema affronta solo incidentalmente l'argomento, inserendolo, a
ragione, nel quadro più ampio dei mutamenti che hanno interessato l’intera
società, non solo quella occidentale, per effetto della globalizzazione e delle
risposte in termini strategici che ad essa sono state date. Ammette però che ci
sia stata una risposta di basso profilo da parte dell’Europa alla domanda nuova
che coinvolgeva, in contemporanea per il nostro continente, il nuovo assetto
politico con relative implicazioni sociali e le relazioni con le forze e gli avvenimenti
esterni. Riconosce anche che la socialdemocrazia avrebbe potuto giocare un
ruolo importante verso la fine degli anni novanta e che invece ha completamente
disilluso le aspettative che si erano formate, proprio perché alcuni venti di
modernizzazione, anziché ricompattare gli strati sociali a cui è diretta per
destinazione ed attrarre nuove componenti come rimedio alle disuguaglianze
sociali crescenti indotte dalle regole del capitalismo globale, hanno preferito
rincorrere illusioni neoliberali. Lasciando libero campo alla destra che,
quanto alla visione europea, consente ampio spazio alle convenienze dei singoli
stati.
A
questo punto, dopo le insufficienze degli anni novanta e le difficoltà attuali,
è logico presumere la necessità di un nuovo progetto del socialismo democratico
a dimensione e ruolo europei. Di fatto questa dimensione e questo ruolo si sono
esauriti nella ost-politik di Willy Brandt,
che però era una real-politik, un dialogo tra sistemi con l'Unione sovietica,
che non prevedeva rapporti con gli ambienti democratici dell'est; una politica
che poteva piacere all'allora partito comunista, ma che mortificava le tensioni
dei socialisti volte a sostenere, nella libertà, un sistema sociale e di
benessere alternativo a quello sovietico. Oggi, se la real-politik continua ad
avere un senso per quanto riguarda i rapporti tra sistemi, quello dell'Europa
comunitaria e quello dell'altra Europa, altrettanto non può dirsi per gli
equilibri interni, dove le forze della sinistra sono costrette a confrontarsi
con nuove dinamiche del lavoro, nuove disuguaglianze e quindi nuovi problemi
sociali che ci riportano indietro rispetto agli equilibri raggiunti verso la
fine del secolo scorso.
D'Alema
ammette che esistano queste condizioni ed auspica la riproposizione, anche a
livello europeo, di un moderno conflitto sociale e la creazione di una nuova
forza progressista europea che superi il basso profilo degli ultimi anni. Ma
ciò che è difficile condividere nelle proposte di D'Alema è che l'analisi che
egli fa di queste forze progressiste abbia una dimensione mondiale, mescolando
Obama, il Giappone e, chissà, forse anche Chavez; e trascurando invece che la
società europea abbia nella sua profondità strutture ben diverse da quelle
degli altri paesi negli altri continenti. Ciò che invece per la socialdemocrazia
europea legittima una riproposizione rinnovata e non il suo de profundis.
Silla Cellino
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