pubblicato su www.pensalibero.it il 6 aprile 2014
Scrive Federico Romero, concludendo il
suo bello studio sulla Storia della
guerra fredda, che se quell’epoca si è chiusa nel 1989 i lunghi
riflessi delle sue luci e delle sue ombre tramontano tuttavia con grande
lentezza e saranno tra noi ancora per un bel pezzo. Non sono infatti mancate rappresentazioni da guerra
fredda nel commentare la crisi ucraina, ma quella guerra fredda individuata
storicamente ed a cui si riferisce Romero è finita ed era un’altra cosa. Finita
perché il supporto principale o almeno ufficiale era un confronto ideologico ed
era un’altra cosa perché si svolgeva tra due massime potenze in un mondo tendenzialmente
bipolare. Del confronto ideologico – soprattutto di quel tipo di confronto ideologico
- oggi mancano le basi, mentre le potenze non sono soltanto le stesse di prima
ed il mondo non è più bipolare. E’ vero invece che continua a scorrere il
tramonto lento di quelle ombre, non più come fattore primario di politica, ma
come sfondo in una situazione geopolitica in cui, volente o nolente, l’Europa è
solo uno dei diversi poli, contrassegnato peraltro da una geografia in
movimento. E’ anche in questo quadro che va valutata la nuova politica della
Russia e all’interno di questa la figura del suo massimo leader.
Apparentemente sembra di assistere a
preludi di vecchie rappresentazioni: carri armati a Budapest o a Praga oppure
tormentate vicende polacche, in realtà gli attori non sono più gli stessi né il
presupposto politico dell’intervento può essere considerato sullo stesso piano.
Allora si trattava di difendere l’equilibrio esistente sia sul piano ideologico
che su quello strategico e militare, i due aspetti coesistevano e venivano
valutati in egual misura, quasi come se uno fosse parte integrante dell’altro;
e verosimilmente era così. Oggi invece la Russia è impegnata, sia pur con fasi
alterne, a ripensare, anche con qualche strattone, presenza e ruolo in o verso
l’Europa ed anche in un concerto internazionale più ampio. La sua azione è
condizionata dall’essere prevalentemente potenza energetica. Di ciò Putin è evidentemente
consapevole e sa che può influenzare politiche perché produce ed esporta energia,
ma sa anche che può subire contraccolpi se il mercato dell’energia si
differenzia. In una tale situazione gli stop and go sono praticamente
inevitabili.
Ed è infatti questa una delle ragioni
per cui la tensione tra Russia e Ucraina non è degenerata in un aperto
conflitto. Sì, è vero, c’è stata la grana Crimea, che Europa ed Usa hanno
passato di fatto sotto silenzio, quasi riconoscendo a Putin il diritto di
gestire in maniera autonoma la tradizionale politica russa verso il Mar Nero ed
adiacenti interessi. Tra tali interessi infatti la Crimea non è vitale né per
gli Usa né per l’Europa, ma il via libera che essi hanno lasciato costituisce
una grossa concessione a Putin, soprattutto in considerazione del fatto che
sono stati trasgrediti la lettera e lo spirito del memorandum di Budapest del
1994, in cui si garantiva sicurezza all’Ucraina in cambio dell’abbandono di
duemila testate nucleari. Del resto la stessa attuale leadership ucraina, per
quanto indefinita o provvisoria che possa essere, ammette questa circostanza
proprio con le parole dell’ambasciatore in Italia, il quale afferma
testualmente che la Crimea è il prezzo per il desiderio dell’Ucraina di non
stare con la Russia.
Ma è anche la ragione per cui – e la
cosa deve in qualche modo far pensare gli alleati occidentali e soprattutto
l’Europa - questi avvenimenti accadono in concomitanza e quasi in sinergia con
un’offensiva sotterranea che la Russia sta avviando nei confronti della stessa
Unione europea o, meglio, delle sue debolezze, se è vero che le attenzioni
degli ambienti diplomatici di Mosca, ma anche quelle degli ambienti culturali
di diretta derivazione governativa [si vedano in questo senso anche la radio ed
il sito, semiufficiali, in italiano La voce della Russia] sono rivolte a creare dei cuscinetti etnici o
pseudo tali a frapporsi tra Ucraina ed Europa. In più dimostrano un interesse non solo
etnografico, ma manifestamente politico e in senso divisivo, per quanto succede
nelle propaggini orientali dell’Unione, ossia di quei paesi forse integrati in
maniera troppo affrettata, al cui interno non a caso si sviluppano maggiormente
fenomeni nazionalisti, potenzialmente centrifughi ed anche di aperta contestazione
all’esperienza europea.
E allora occorre tornare a quanto
diceva Romero: più che delle luci però siamo in presenza delle ombre della
guerra fredda, di quella sezione particolare della guerra fredda che si
svolgeva in Europa, sia pur temperata da momenti di ost-politik. Da queste
ombre l’Europa come realtà istituzionale non sembra sia riuscita del tutto ad
affrancarsi, se è vero che al suo interno ricompaiono rivendicazioni, non più
nostalgiche verso un passato anche dimenticato, ma che contestano in maniera
aperta o sotterranea le scelte fatte dall’Unione europea in una logica che
dall’esterno appare di potenza senza che al fondo ci sia una politica.
Silla
Cellino
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