pubblicato sul n. 16/2014 della rivista Consulenza, ed. Buffetti
Probabilmente
la trasposizione in legge nazionale della direttiva europea in materia di lotta
contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile
avrebbe avuto bisogno di maggiore estensione, in maniera da affrontare con un
criterio di organicità i molteplici aspetti che vengono interessati e coinvolge soprattutto il sottofondo di
numerose attività che con tutto l’argomento hanno relazione. Non si tratta solo
di assicurare la correttezza dei rapporti nell’ambito dell’ambiente di lavoro,
ma le problematiche in campo riguardano diversi livelli che hanno a che fare
con altrettanti settori d’impegno nei confronti dei giovani. E si va dalla
scuola allo sport, alle attività ricreative e sociali e finanche al campo
religioso.
Fa
perciò discutere e un po’ anche delude il recente provvedimento legislativo che
crede di risolvere la questione limitandosi ad imporre ai datori di lavoro la
richiesta del certificato penale a quei dipendenti che lavorino oppure operino
a contatto con i minori, senza affrontare la varietà e la complessità delle situazioni
che di questa materia sono caratteristiche. Intendiamoci: il tutto non è che la
trasposizione nel diritto italiano di una direttiva europea adottata più di due
anni fa; e precisamente la direttiva 2011/92/UE relativa alla lotta contro
l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile,
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea il 17 dicembre 2011.
Vediamo perciò il tutto più da vicino.
Tra
le motivazioni esposte nel considerando 40 della direttiva c’era
che “i datori di lavoro hanno il diritto di essere informati, al momento
dell’assunzione per un impiego che comporta contatti diretti e regolari con
minori, delle condanne esistenti per reati sessuali a danno di minori iscritte
nel casellario giudiziario o delle misure interdittive esistenti”, aggiungendo
che “la nozione di datore di lavoro dovrebbe contemplare anche le persone che
gestiscono un’organizzazione operante in attività di volontariato attinenti
alla custodia e/o alla cura dei minori e che prevedono un contatto diretto e
regolare con essi”. Tale esigenza è stata tradotta in norma nell’art. 10 della
direttiva, la cui trasposizione in legge dello stato italiano è avvenuta con
decreto legislativo 4 marzo 2014 n. 39 che, di fatto, si limita ad aggiungere
un articolo al DPR 313/2002, Testo unico sul casellario giudiziale e
precisamente l’art. 25-bis che impone a chi intenda impiegare al lavoro per lo
svolgimento di attività professionali o volontarie che comportino contatti
diretti e regolari con minori di richiedere il certificato penale della persona
che ne sarà incaricata. La stessa norma che introduce l’art. 25-bis prevede poi
sanzioni amministrative pesanti per il datore di lavoro – come si può notare
formulazione diversa da chi intenda impiegare al lavoro – che non adempia a
questo obbligo.
Questo
testo troppo stringato è non solo insufficiente per l’ampia problematica di cui
si è fatto cenno, ma è anche restrittivo rispetto alla direttiva; la quale
infatti si propone di:
a) scongiurare la possibilità
che persone già condannate per reati di natura sessuale nei confronti di minori
possano svolgere attività professionali che comportano contatti diretti e
regolari con minori
b) riconoscere ai datori di
lavoro la possibilità di chiedere informazioni alle persone assunte per
attività professionali o volontarie organizzate sull’esistenza di condanne
penali per i medesimi reati o di misure interdittive all’esercizio di alcune
attività che comportano contatti diretti con minori
c) che il tutto avvenga con
il consenso dell’interessato
Il
nostro testo di legge invece prevede solo l’obbligo, peraltro pesantemente
sanzionato ma in via amministrativa in caso di omissione, a carico del soggetto
[datore di lavoro] di verificare l’esistenza di condanne per quel tipo di reati
o anche per sanzioni interdittive nei confronti delle persone che s’intendano
impiegare per lo svolgimento di attività che comportino contatti “diretti e
regolari” con minori; tali attività sia che siano professionali o volontarie.
L’obbligo, a norma di legge, consiste nel richiedere il certificato del
casellario giudiziale.
Le
cose poi si rendono più passibili di critica anche in sede di interpretazioni
al provvedimento date dal Ministero della Giustizia, ma soprattutto di prassi,
fornite con una circolare e di seguito con due ulteriori note che, in pratica,
paiono disattendere in gran parte la norma ed in un certo senso anche lo
spirito originario della direttiva.
Innanzi
tutto un problema di efficacia
temporale. La legge non lo dice e neppure la norma comunitaria, ma è difficile non intendere come generale lo spirito di ambedue le norme,
sia quella comunitaria che quella nazionale. Se infatti si fa riferimento ad un
problema di protezione dei minori appare singolare che si richieda una certificazione
solo per coloro che saranno addetti a rapporti con minori da ora in poi ed altrettanto
non si richieda per chi è già inquadrato e incaricato per detti rapporti da
prima dell’entrata in vigore della legge: si tratta di un valore assoluto ed in
tema di valori assoluti un principio relativo come il tempus regit actum appare non soddisfacente. Su questo punto però le interpretazioni
ministeriali tacciono. E se è possibile pensare che ciò avvenga in presenza di
impedimenti di carattere legislativo e tecnico, anche oggettivi, la valenza
etica del provvedimento ne soffre e produce inquietanti interrogativi.
Di
diverso tenore invece i dubbi suscitati dalla circolare ministeriale del 3
aprile, prevalentemente tecnica perché rivolta alle strutture periferiche della
giustizia e che concerne il rilascio delle certificazioni. Qui interviene un
problema di privacy a tutela dei
soggetti di cui si richiede la certificazione. La norma infatti prescrive che
debba essere il datore di lavoro a chiedere il rilascio del certificato penale
del casellario giudiziale, che però
nella forma in vigore potrebbe comprendere anche altre circostanze
penali a carico del soggetto che non riguardano l’oggetto della norma in
questione e che sono meritevoli di tutela a beneficio del lavoratore
interessato. Attualmente gli uffici del
casellario non sono attrezzati per effettuare questa separazione e perciò, nelle
more del periodo necessario per una adeguata organizzazione, il datore di lavoro,
che comunque dovrà richiedere il certificato, otterrà il certificato completo,
ma potrà farlo solo se avrà acquisito il consenso del lavoratore interessato.
E’ facile ipotizzare che il lavoratore darà il consenso con pregiudizio anche
della propria privacy, perché negarlo
potrebbe significare di fatto una rinuncia al posto di lavoro, con tutte le
considerazioni del caso. Meno male che è una prassi provvisoria. Sì, però ….
Ci
sono poi due successive, ma ravvicinate, note di chiarimento. Partiamo dalla seconda,
che è semplicemente dedicata soltanto
alla semplificazione delle procedure nelle more del necessario aggiornamento
del casellario giudiziario, in particolare per autorizzare il rilascio di
certificati che riguardino la sola materia prevista in questo provvedimento
legislativo. Così si consente che in caso di dipendenti della pubblica
amministrazione o di gestori di pubblico servizio si possa procedere con la
richiesta del certificato al casellario e, nelle more, mediante una
dichiarazione sostitutiva di certificazione da parte del lavoratore. Analogamente
in caso di rapporto di lavoro privato il problema della fase transitoria può
essere risolto con una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà
rilasciata dal lavoratore.
La
nota precedente invece è più problematica, perché vi si affronta un tema che
può dare, anch’esso, adito ad altre
perplessità, dovendosi fornire un’indicazione direttiva su chi sia soggetto
all’obbligo di richiedere il certificato. La novella prescrive che debba essere
il datore di lavoro e per datore di lavoro s’interpreta colui che stipula con
un terzo un contratto di lavoro. La preoccupazione non sottaciuta nella norma
era quella di affrancare da queste disposizioni enti o associazioni che
organizzano attività di volontariato avvalendosi della collaborazione di
soggetti che svolgano il loro compito in forma, appunto, volontaria, in parte
anche andando in una direzione diversa da quella prevista nella direttiva
europea. Infatti il secondo comma dell’art. 10 della direttiva utilizza il
termine datore di lavoro in senso generale, ricomprendendovi anche le organizzazioni di attività
volontarie. Ancor più esplicitamente il considerando 40 afferma che “ai fini
della presente direttiva la nozione di datore
di lavoro dovrebbe contemplare anche le persone che gestiscono
un’organizzazione operante in attività di volontariato attinenti alla custodia
e/o alla cura dei minori e che prevedono un contatto diretto e regolare con
essi”, senz’altra specificazione se siano dipendenti dell’organizzazione o
meno. E’ vero che sempre il considerando
40 ammette che “il significato delle attività di volontariato organizzate e il
contatto diretto e regolare con i minori siano definite conformemente al
diritto nazionale”, ma ciò non significa automaticamente che si possa venir
meno al principio generale ed oggettivo: e cioè che, indipendentemente dalla
qualifica rivestita, dipendente, collaboratore, volontario o altro, sempre di
personale che sta a contatto di minori si tratta e come tale portatore di
qualità soggettive, ma anche elementi i cui comportamenti devono essere sempre
oggettivamente a disposizione e verificabili.
Resta
inoltre imprecisato il concetto di datore di lavoro. Ci sono diverse interpretazioni,
che in un certo senso possono considerarsi anche come richiesta di talune parti,
secondo cui al concetto di datore di lavoro debba affiancarsi quello di
committente, evidentemente per soggetti che rendono altri tipi di prestazioni
diverse dal lavoro dipendente, come collaboratori coordinati e continuativi più
o meno a progetto, tirocinanti o titolari di partita iva, un po’ meno forse
associati in partecipazione, e invece ricomprendendo allenatori o preparatori
sportivi retribuiti in regime forfettario, avendo riguardo alla considerazione
che questa è una materia in cui debbono prevalere le considerazioni di fatto e
non le questioni di forma. Tutto questo non è detto nella norma ed un
intervento chiarificatore potrebbe essere necessario, ma a questo punto
occorrerebbe fare un discorso più generale che coinvolge l’impianto stesso
della riforma approvata fino a risalire ancora una volta alla direttiva
comunitaria. E’ la stessa direttiva però che appare problematica non tanto
nelle motivazioni, perché con il primo comma dell’art. 10 intende stabilire dei
paletti di garanzia riguardo all’esercizio di attività professionali che
comportino contatti diretti e regolari con minori, quanto nelle soluzioni, poiché l’obbligo è
rivolto esclusivamente nei confronti del
datore di lavoro, al momento dell’assunzione di una persona per attività
professionali o attività volontarie organizzate. Ora è vero che la direttiva è
destinata ad uniformare sull’argomento la legislazione di tutti gli stati che
fanno parte dell’Unione europea in cui coesistono impostazioni differenti nella
legislazione del lavoro da paese a paese, ma non è difficile capire che la ratio della norma europea mette al
centro dell’interesse il minore e le sue difese e non il datore di lavoro come
possa essere variamente inteso. Tanto che non si capisce fino a qual punto la
norma italiana, con le successive precisazioni di prassi, sia stata scritta per
impedire l’accadere di reati nei confronti dei minori o per far salve le
responsabilità del datore di lavoro.
Lo
stato attuale della norma nella sua forma succinta e gli scarsi indirizzi o
approfondimenti in materia di prassi lasciano molti argomenti in sospeso, anche
se su diversi di questi penso potremo registrare uno sviluppo di opinioni.
Abbiamo accennato al volontariato, particolarmente quello impegnato nel
sociale, ma non dimentichiamo il settore altrettanto ampio degli istruttori
sportivi e magari anche degli operatori culturali oppure del personale
ausiliario nelle scuole, mentre nessuno finora si è soffermato su quel particolare
mondo costituito dal lavoro domestico, anch’esso caratterizzato da riflessi di
rapporti con i minori. Pertanto per ora ci fermiamo qui. Magari poi, se ce ne
daranno motivo, con calma, ci riaggiorniamo.
Silla Cellino
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