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venerdì 29 aprile 2011

Cavour e il nostro tempo

pubblicato su pensalibero.it il 13 marzo 2011

“Le agitazioni politiche che hanno sconvolto l’Italia hanno spinto i suoi più nobili giovani a fuggire lontano da lei. Ciò che il mio paese possedeva di più prezioso in ogni genere è espatriato; la maggior parte di quei nobili esiliati sono andati a Parigi. Ma il genio, che aveva preso delle brillanti strade sotto il cielo della patria, si è dissolto all’estero… No, non è fuggendo dalla patria poiché essa è infelice che si può raggiungere una meta gloriosa. Maledetto colui che abbandona con disprezzo la terra che l’ha visto nascere, che rinnega i suoi fratelli come indegni di lui! Quanto a me ho deciso che non separerò mai la mia sorte da quella dei piemontesi. Felice o infelice la mia patria terrà le sorti della mia vita, non le sarò mai infedele neppure quando sarò sicuro di poter trovare altrove un brillante destino”.
Così scriveva Camillo Cavour, in francese com’era sua abitudine, nel 1838, quando ancora doveva cominciare la sua brillante carriera politica. L’idea d’Italia come sottofondo storico, culturale e civile era già presente nelle aspirazioni politiche e nell’analisi del futuro statista, quasi una premessa per quella che sarà una identificazione di destini tra il Piemonte ed il resto della penisola. Giocava evidentemente in lui, così come era per una certa opinione pubblica europea che poi sarebbe divenuta prevalente, il “prestigio dell’antica tradizione di civiltà e di cultura proprio dell’Italia” e di ciò si ebbe riflesso anche nei giudizi che accompagnarono il processo di costruzione e la realizzazione dell’unità d’Italia, che apparve agli osservatori europei come un modello che conciliava liberalismo e sviluppo nazionale, in contrapposizione al modello bismarckiano, nazionale ma autoritario. A questo giudizio contribuì in maniera determinante, come scrive Giuseppe Galasso quel concetto cavouriano di “nazione come libertà e come valore essenzialmente di cultura”.
La sua prematura scomparsa – e quindi il venir meno della sua azione politica – non ci consente né ci autorizza a far valutazioni alternative su come si sarebbero svolti i primi anni, così cruciali, dell’esperienza unitaria, però ci permette di constatare come l’humus liberale, nella particolare accezione pragmatica di Cavour, abbia prodotto i suoi frutti in alcune esperienze di governo successive fino a Giolitti, durante la cui esperienza si rivelarono le maggiori aperture e l’interesse di stampo assolutamente liberale verso il coinvolgimento delle forze presenti, ma sino allora escluse, o emergenti della società, quelle cattoliche e quelle socialiste.
Nella nostra vicenda contemporanea partiti e tendenze - presenti ormai più le seconde che i primi e così scettiche sui valori e gli insegnamenti della storia - si muovono invece in una società in cui il rischio dell’illiberalità è reale ed attuale e a tale situazione questi partiti e queste tendenze si conformano, quando non la sostengono o ne traggono motivi di forza. L’humus liberale, oggi un po’ in ribasso soprattutto come pratica quotidiana, deve restare vivo però come esigenza culturale e rigenerarsi in una nuova pratica. La nuova pratica non può essere quella degli anatemi, del muro contro muro, dell’uso disinvolto dei meccanismi del potere e di quello che alcuni poteri stessi fanno delle loro attribuzioni; la nuova pratica deve essere quella di un impegno libero da condizionamenti esterni od occulti nel campo delle riforme, della giustizia, del lavoro, della laicità, della lotta ai poteri forti e che almeno qualcuno dica una buona volta quali sono questi poteri forti. I mezzi di comunicazione di massa, che usati in una certa maniera tanta importanza hanno nel conformismo e nell’addormentamento delle coscienze, ci forniscono anche grandi occasioni di libertà e sarebbe oltremodo colpevole, per noi, non utilizzarli nella giusta direzione.

Silla Cellino


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