(sarà pubblicato domani su www.pensalibero.it)
Eppure il mondo non finisce qui. Né si può
pensare che le sue sorti – sempre quelle del mondo - dipendano esclusivamente da
un conflitto religioso, interreligioso o intrareligioso che possa essere. Per
rendercene conto guardiamo un attimo agli Stati Uniti. Il dibattito sulla
politica internazionale è scarsamente presente, al momento, nella competizione
per le primarie presidenziali. Si sa infatti che ogni partecipante va alla
conquista di un voto utile per ottenere il risultato della candidatura; e per
far questo punta ad argomenti più comprensibili e più vicini agli interessi
diretti dell’elettorato, fondati sui grandi temi nazionali, ma soprattutto sociali
e anche a dimensione locale. La situazione internazionale al massimo rimane
sullo sfondo. Però al momento del voto presidenziale probabilmente non sarà più
così, non lo sarà sicuramente ad elezioni avvenute, quando gli Stati Uniti,
come succede per l’Europa, dovranno fare i conti con i mutamenti intervenuti
nell’agone mondiale, anche ben al di là del turbinoso scacchiere mediorientale.
É abbastanza scontato che debbano esser ridisegnati
i rapporti con la Russia, che non è più – o più precisamente, forse, non vuole
più essere – quella realtà uscita sconfitta e praticamente a pezzi dalla guerra
fredda, ma punta a far riemergere un suo ruolo, forte delle proprie risorse
energetiche, della nascita di un nucleo dirigente da queste originato, di un
leader politico discutibile sotto tanti aspetti, ma che acquisisce carisma
all’interno e riconoscimenti in alcuni ambienti internazionali, ma soprattutto pratica
una rinnovata ambizione di potenza per la quale gioca spregiudicatamente, dalla
situazione ucraina a quella mediorientale, fino al ripristino di relazioni
molto amichevoli, se non ancora privilegiate anche con la Cina.
Già, la Cina. Al netto dell’interesse e della
considerazione che gode per il processo di modernizzazione interna e le sue
aperture verso le relazioni mondiali, il ruolo che questo paese svolge e che si
avvia a potenziare nella situazione internazionale anche al di fuori
dell’ambito regionale è in gran parte sottostimato. Da molto tempo infatti,
quasi in contemporanea e in progressione con il suo sviluppo interno, la Cina
sta lavorando per una decisa supremazia nell’area del sud-est asiatico e non
solo. Questa situazione è da tempo sotto osservazione dei commentatori delle
vicende internazionali, anche se stupisce che un’inesauribile area
d’informazione e di studio sulla politica internazionale come l’ISPI non
dedichi attenzione alla questione cinese nel suo rapporto annuale. E’ un fatto
però che la Repubblica popolare oggi è molto attiva per conquistarsi un proprio
spazio potenzialmente competitivo, in qualche caso egemonico, riguardo ai
vicini confinanti e soprattutto sul mare. E non si tratta di un impegno
settoriale limitato all’area del sud-est asiatico, ma si estende ad altre aree
dell’oceano Pacifico e di quello Indiano, come nel caso recente dello
stabilimento di una base a Gibuti.
Si aggiunge anche che la Cina manifesta
attualmente un fortissimo interesse verso altri poli. In primo luogo verso
l’Africa, verso cui questa base di Gibuti, assieme al controllo delle rotte del
petrolio, costituisce un importante supporto. Non dimentichiamo che da qualche
anno l’impegno cinese in Africa si è intensificato al punto di diventare un
investitore importante in quell’area, forse il principale, con un occhio
particolarmente rivolto allo sviluppo agricolo e quindi ai rifornimenti
alimentari. Inoltre la recente riammissione dell’Iran ai rapporti internazionali
ha riaperto, sia pure sub iudice, quella che era una tradizionale via d’interscambio
legata non solo al petrolio e che potrebbe riproporsi anche in un sistema di
alleanze regionali all’interno di quel nuovo sistema euroasiatico verso cui
propende anche la Russia di Putin.
Si tratta peraltro di un complesso di
avvenimenti che solo gli eurocentrici considerano periferici e regionali ed ai
quali gli stessi Usa negli ultimi anni sono stati interessati più come badanti
internazionali che come protagonisti, nel quale però si sviluppano alcuni processi
di media potenza e prove di riammissione tra le superpotenze mondiali, tanto
che si configura adesso difficile, anche per gli Stati Uniti, affrontare nuovi
complessi nodi quale quello dei mari del sud-est asiatico di cui prima si è
fatto cenno. Attualmente il punto di frizione tra la Cina ed i suoi vicini è concentrato sulle rispettive pretese
intorno alle isole Spratly ed al problema delle piattaforme artificiali
costruite dai cinesi, ma attorno a questo nuovo interesse non è difficile
intravedere una causa prima che riguarda le forniture di petrolio, di cui la
Cina è uno dei massimi consumatori ed al tempo stesso uno dei massimi
importatori; e l’area marittima del sud-est asiatico dove la Cina consolida le
sue basi ne è una delle aree più ricche al mondo. La medesima macroarea del Mar
Cinese Meridionale è inoltre la zona più trafficata dei trasporti marittimi
mondiali, così che è da comprendere la corsa ad esercitarvi una supremazia.
Tutto questo al futuro presidente USA ed al
suo governo non potrà restare indifferente, soprattutto considerando la
vecchia, ma mai rinnegata dottrina americana, secondo cui il controllo delle
vie marittime e quindi la superiorità navale costituisce il presupposto
primario della supremazia mondiale. Difficoltà
queste che sono acuite dal fatto che questa area geografica, che comprende sia
l’Estremo Oriente che il Sud-Est Asiatico e si estende fino all’India, è ricca
di competitività tra le nazioni ed anche di situazioni critiche e di nodi da
sciogliere. Tra le prime, oltre la questione delle isole Spratly e delle
piattaforme, ci sono da mettere in conto i differenti posizionamenti dei paesi
della penisola indocinese nei confronti di Pechino; tra le seconde le difficoltà
competitive e l’aspirazione a riemergere dell’attuale Giappone nonché
l’imbarazzante, per tutti, presenza della Corea del Nord.
Silla
Cellino
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