pubblicato sulla rivista Consulenza n. 27/2012 Editore Buffetti
Il nuovo lavoro a
tempo determinato.
Non
costituiscono l’ossatura essenziale della riforma del lavoro recentemente
varata dal governo Monti ed approvata da entrambi i lati del Parlamento, però
gli aggiustamenti intervenuti in materia di lavoro a tempo determinato sono pur
sempre interessanti, anche per capire l’evoluzione circa alcuni criteri
interpretativi del lavoro su cui in passato si sono creati dei simboli e che
ancora rivestono una certa importanza. Niente di paragonabile alle questioni di
principio sull’art. 18, anzi al contrario qui la fanno da padrone le questioni
di fatto, ossia gli istituti del lavoro ed il loro evolversi. Proprio per
questo si lavora su punti fermi e le trasformazioni stabiliscono punti
altrettanto fermi, che possono essere discussi per il loro collocarsi sull’uno
o l’altro versante delle politiche del lavoro, ma che non possono essere
variamente interpretati, almeno per quanto riguarda le conseguenze operative.
La regola e la forma comune.
Per inquadrare correttamente il problema occorre partire dall’art. 1 del d.lgs.
6 settembre 2001 n. 368, attuativo dell’accordo quadro sul lavoro di cui alla
direttiva CE 1999/70, che ha subito più volte modificazioni, spesso indotte
anche dal quadro politico in essere ed a seguito anche del dibattito instaurato con le forze sociali.
Tra queste, significativa anche per la premessa che dello stesso decreto
condizionava sviluppo ed attuazione, la legge 247 del 24/12/2007 introduceva
all’inizio dell’art. 1 un comma 0, con cui si stabiliva il principio che il
contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo
indeterminato. Diversamente invece l’accordo quadro in sede europea sopra richiamato
riconosceva che i contratti a tempo indeterminato fossero e continuassero ad essere
la
forma comune del rapporto fra i datori di lavoro ed i lavoratori. Nello
stesso ambito europeo si prendeva anche atto che i contratti a tempo
determinato potessero rispondere, in determinate circostanze, sia alle esigenze
dei datori di lavoro che a quelle dei lavoratori. Perciò di fatto la legge
italiana si portava ad un livello qualitativo diverso e magari più qualificato
rispetto alla situazione europea, necessariamente composita, affidandosi con
ciò ad un quadro di relazioni industriali e sociali più avanzato. Oggi con la
riforma Fornero si torna alle origini: il contratto di lavoro a tempo
indeterminato non è più la regola, ma costituisce semplicemente la forma comune
del rapporto di lavoro, così come già si diceva nella direttiva del 1999. Le
motivazioni politiche del cambiamento non interessano in questa sede, però è
utile comprenderne la filosofia; e in questo ambito la nuova formulazione va
letta anche in collegamento con le norme meno suscettibili di aggiramento
adottate per altre forme di lavoro, ad esempio nel lavoro a progetto. Inoltre
sono emerse interpretazioni, anche di natura
semantica, che hanno dato luogo a valutazioni diverse e c’è anche chi ha
ritenuto questa nuova formulazione più stringente, come amano dire i giuristi,
rispetto alla precedente. Personalmente ritengo invece che non abbia grande
importanza giudicare se sia più stringente la vecchia o la nuova definizione,
ma valutare il collegamento che la nuova definizione ha con le nuove forme di
lavoro a tempo determinato o con le nuove vesti date ai vecchi istituti.
Cominciamo perciò ad analizzare.
Rimane impregiudicata la possibilità di apporre un termine alla durata del
contratto di lavoro subordinato per ragioni di carattere tecnico, produttivo,
organizzativo o sostitutivo, anche nell’ambito dell’attività ordinaria del
datore di lavoro e resta altresì confermato che la fissazione di un termine è
condizionata dall’esistenza di un atto scritto che illustri le suddette
ragioni. Ora però si aggiunge, con
l’inserimento del comma 1-bis, che a questa figura ordinaria di rapporto di
lavoro a tempo determinato si affianchi un’altra possibilità: quella cioè di
poter concludere contratti di lavoro a tempo determinato anche al di fuori di
queste ragioni, a condizione che la durata non sia superiore a dodici mesi
senza possibilità di rinnovo e che per
il lavoratore si tratti del primo
rapporto di lavoro di questo tipo[1];
dalla formulazione della norma non è chiaro se debba trattarsi del primo
rapporto di lavoro in assoluto oppure del primo rapporto con lo stesso datore
di lavoro, ma la logica ed anche un certo spirito pratico portano ad accettare
questa seconda soluzione. Inoltre, questa prima parte del comma 1-bis risulta
importante ed anche innovativa perché interviene su una questione non precedentemente considerata
su cui però si stava producendo del contenzioso, anche perché caratterizzata da
frequenti pratiche sostanzialmente elusive e riguardava i lavoratori che
forniscono prestazioni nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo
determinato, gli interinali per usare la vecchia terminologia. Ebbene con la
novella, anche a beneficio di questi lavoratori, nel caso si tratti di una
prima missione presso quel datore di lavoro committente, valgono le stesse
regole già descritte per il primo rapporto diretto a tempo determinato ed anche
le condizioni che di seguito vengono descritte; ossia sono in tutto e per tutto
equiparati ai lavoratori assunti direttamente dal datore di lavoro.
Analogamente, come recita un secondo periodo aggiunto all’art. 4-bis, i periodi
di missione svolti in sede di lavoro somministrato valgono a tutti gli effetti
ai fini del computo del periodo massimo di trentasei mesi, salvo che anche in
questo caso non intervenga la stipula di un accordo in deroga presso la
direzione territoriale del lavoro competente e con le formalità già previste
dalla legge.
Contratti a termine per accordo
sindacale. Sulla seconda parte del comma 1-bis si appuntano
invece diverse perplessità, anche di carattere operativo ed applicativo. Ci si
riferisce alla possibilità di stipulare accordi in momenti decisionali diversi,
ossia in sede di contrattazione collettiva presso le organizzazioni sindacali
dei datori di lavoro e dei lavoratori, come al solito comparativamente più
rappresentative a livello nazionale, anche di categoria o in via delegata ai
livelli decentrati. Anche in questo caso è prevista la possibilità di
prescindere dalle ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo se
l’assunzione avviene nel limite complessivo del 6 per cento del totale dei
lavoratori occupati nell’ambito dell’unità produttiva e che riguardi un processo
organizzativo particolare, che è quello previsto dalla nuova formulazione del
terzo comma dell’art. 5, di cui tratteremo più avanti. Altri punti fermi
restano invece che, a differenza del nuovo rapporto di cui alla prima parte del
comma, non è detto che necessariamente si debba trattare del primo rapporto con
quel datore di lavoro; che la durata debba essere prefissata, ma senza
soggiacere a limiti massimi, fermo restando – è lecito presumere - quanto già
previsto dalla legge per i rapporti che superano il periodo massimo di
trentasei mesi[2];
come pure è stabilito che comunque anche per questo tipo di contratto non vi
sia possibilità di proroga al limite massimo di dodici mesi. Sull’argomento
parecchie cose restano ancora da chiarire, soprattutto per questioni attuative,
con particolare riferimento al rapporto tra contrattazione nazionale,
intermedia o di prossimità.
Prosecuzione oltre i termini[3].
Siamo qui in presenza di un’apertura, ma anche di una stretta normativa.
L’apertura consiste in un prolungamento della durata della continuazione del
rapporto dopo la scadenza, senza che ciò comporti la trasformazione del rapporto
stesso in un contratto a tempo indeterminato. Tale intervallo di tempo è
portato da venti a trenta giorni in caso di contratto inferiore a sei mesi e da
trenta a cinquanta giorni negli altri casi. Viene aggiunto l’obbligo per il
datore di lavoro, prima non previsto, di comunicare la prosecuzione del
rapporto al competente centro per l’impiego prima ancora che scada il termine
inizialmente fissato e di indicare anche la durata della prosecuzione. Non è stabilita
la misura sanzionatoria in caso di inadempimento, ma si può presumere che possa
essere assimilata ai casi di mancata comunicazione di assunzione o di
cessazione. La stretta riguarda invece l’intervallo che deve trascorrere tra la
data di cessazione di un contratto a tempo determinato e la sua riproposizione
negli stessi termini tra i medesimi soggetti, intervallo che viene portato da
dieci a sessanta giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a
sei mesi e da venti a novanta giorni per i contratti di durata superiore.
Trattamento
particolare è invece riservato ai contratti derivanti dagli accordi collettivi
già ricordati nel secondo periodo del comma 1-bis. Per questo tipo di
lavoratori il periodo di prosecuzione oltre i termini può essere ridotto con
accordo sindacale fino a venti giorni per i contratti fino a sei mesi e a
trenta per gli altri. Questa è la disposizione contenuta nel comma 3 come
modificato dalla novella, la quale però ne condiziona l’attuabilità al verificarsi
di processi organizzativi derivanti da cause quali l’avvio di una nuova
attività, il lancio di un prodotto o di un servizio innovativo,
l’implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico, la fase
supplementare. Sono processi contenuti nella lettera della legge, ma è da
immaginare che si tratti di un’elencazione a titolo prevalentemente
esemplificativo, anche se - a rigore – andar per esempi sembrerebbe poco
compatibile con la legge, o almeno col concetto tradizionale che ancora abbiamo
di legge. Comunque così è, piaccia o non piaccia: e queste condizioni esemplificative
sono le stesse che il comma 1-bis, secondo periodo, richiama per autorizzare la
contrattazione collettiva a quel particolare rapporto a tempo determinato di
cui si è già trattato. C’è da aggiungere che, qualora in proposito manchi un
intervento della contrattazione collettiva, sarà il Ministero del lavoro e
delle politiche sociali che, decorsi dodici mesi dall’entrata in vigore della
legge, individuerà le condizioni di operatività delle riduzioni previste.
Naturalmente dopo aver sentito le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei
datori di lavoro comparativamente più rappresentative.
Controversie: nuovi termini.
Sono stabiliti, però a partire dal 1° gennaio 2013, nuovi termini di
impugnativa in caso di contestazioni aventi ad oggetto la nullità del termine
apposto al contratto oppure anche alla qualificazione del rapporto di lavoro.
Si applicherà infatti un nuovo termine di centoventi giorni per rendere noto al
datore di lavoro la volontà di eccepire la nullità del termine apposto al
contratto di lavoro, contro il termine precedente di sessanta giorni, termine
però che resta valido per tutto il presente anno; ed un lasso di tempo a
disposizione ridotto, ore di centottantagiorni, per avviare il giudizio con il deposito
del ricorso presso la cancelleria del tribunale in funzione di giudice del
lavoro, contro il precedente di duecentosettanta giorni, anch’esso in vigore
fino al prossimo 31 dicembre.
Sempre in materia di controversie.
Viene poi emanata una norma interpretativa riguardo l’indennità spettante al
lavoratore in caso di conversione del contratto a tempo indeterminato,
indennità che il giudice stabilisce nella misura onnicomprensiva compresa tra
un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione.
Ebbene, la legge precisa l’onnicomprensività, nel senso che l’indennità
prevista “ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le
conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la
scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice
abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”. In precedenza
sussisteva il dubbio se il datore di lavoro, oltre l’indennità onnicomprensiva,
dovesse corrispondere anche le retribuzioni spettanti per l’intervallo tra un
contratto e l’altro, con annessi oneri previdenziali.
Conseguenze contributive.
Sempre a proposito di oneri previdenziali, invece, viene stabilito, a partire
dal 1° gennaio 2013, un aggravio contributivo con l’applicazione per i lavoratori
a tempo determinato di un’aliquota aggiuntiva dell’1,4% sull’imponibile
previdenziale. Tale aggravio è a carico del datore di lavoro. Dall’applicazione
di tale contributo sono escluse le retribuzioni relative ad alcune categorie di
lavoratori assunti a termine, ossia quelli in sostituzione di lavoratori
assenti, quelli addetti alle attività stagionali, gli apprendisti e infine i
dipendenti assunti a termine nella pubblica amministrazione. Tale ulteriore
aliquota contribuisce a finanziare l’Assicurazione sociale per l’impiego, ossia
la nuova forma di ammortizzatore sociale che dovrebbe prendere l’avvio dal 1°
gennaio 2013. E’ previsto però che, qualora il lavoratore venga successivamente
stabilizzato con un rapporto a tempo indeterminato, il datore di lavoro possa
recuperare parte di questo contributo, ossianel limite di sei mensilità. E’ di
tutta evidenza l’intento diretto ad incidere sul maggior costo del lavoro a
termine, così come quello premiante nei confronti del datore di lavoro che
stabilizzi un lavoro prima solo temporaneo, mentre l’operazione resta definitivamente
onerosa per quelle categorie di imprenditori che ricorrono al lavoro temporaneo
per motivi funzionali relativi alla loro specifica attività. Il che lascia
qualche perplessità.
Il lavoro
intermittente …. e poi. La vicenda del lavoro
intermittente o a chiamata, come previsto dagli artt. 33 e seguenti del d.lgs.
276/2003, detto come si sa impropriamente Legge Biagi, si arricchisce di un
nuovo capitolo. E’ noto che a cavallo degli anni 2007 e 2008, per un’insanabile
divergenza di vedute tra le parti politiche che sono state alternativamente al
governo, una delle quali confortata anche dal parere autorevole dei sindacati,
si è assistito ad un balletto poco edificante, che nel termine di pochi mesi ha
prima disfatto e poi rifatto quella parte della legge e precisamente il capo
primo del titolo quinto, articoli dal 33 al 40. Oggi si riconosce che l’impianto
fondamentale deve essere mantenuto ma che qualche aggiustamento si rende
necessario, nell’esigenza, come sostenuto dalla stessa Fornero, ministro del
lavoro, nel suo intervento alla Camera del 25 giugno, di separare la
flessibilità buona da una cattiva applicazione di certe norme. Si potrebbe
aggiungere anche l’insufficienza di certe norme. La cattiva applicazione – ma
anche l’insufficienza – riguardava ad
esempio l’obbligo di comunicazione: è vero che la comunicazione preventiva di
assunzione doveva già essere inviata on-line al centro per l’impiego competente,
ma per la chiamata che riattivava la prestazione non era prevista nessuna
ulteriore formalità, il che poteva dar luogo anche a qualche dimenticanza nella
registrazione delle successive occasioni di lavoro. Ora invece la legge
dispone, per la verità con linguaggio un po’ ermetico, che prima dell’inizio
della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni di durata
non superiore a 30 giorni, dovrà essere data comunicazione con modalità semplificata
e con indicazione della durata, da parte del datore di lavoro alla competente
direzione territoriale del lavoro: la semplificazione consiste nel mezzo di
comunicazione, sms, fax o posta elettronica o altra modalità in funzione dello sviluppo
delle tecnologia che dovrà essere individuata con decreto ministeriale.
L’omessa comunicazione sarà sanzionata amministrativamente, anche in maniera
pesante: da 400 a 2.400 euro in relazione a ciascun lavoratore per cui è stata
omessa la comunicazione. Visto il rischio elevato, un consiglio agli operatori
è quello di preferire l’utilizzazione della posta elettronica certificata.
Su
questo argomento, in tema di modifiche apportate resta solo da dire che, al di
là delle ipotesi individuate e disciplinate dai contratti collettivi nazionali
o territoriali, il contratto di lavoro intermittente può essere in ogni caso
concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con più di 55 anni di
età[4] oppure
con meno di 24 anni di età[5].
Il contratto d’inserimento
alle ultime battute. Infatti viene definitivamente
abrogato a partire dal 1° gennaio 2013. Non che in precedenza si fosse
registrato un notevole appeal, anche
in considerazione delle incertezze di applicazione e in ordine alla
eterogeneità delle categorie e degli ambiti territoriali o socio-economici dei
soggetti a cui era rivolto, nonché allo stato di attuazione delle singole
disposizioni. Comunque, proprio perché l’abrogazione decorre dall’inizio del
prossimo anno occorrerà tener presente che le situazioni già in essere avranno
validità fino alla scadenza e che fino a 31 dicembre di quest’anno sarà
possibile stipulare questo tipo di contratto, per il quale si ricordano le categorie
a cui è/era destinato, ossia giovani di età compresa tra i diciotto ed i
ventinove anni, disoccupati di lunga durata da ventinove fino a trentadue anni,
lavoratori che riprendano un’attività dopo un intervallo lavorativo di almeno
due anni, donne residenti in aree geografiche svantaggiate dal confronto tra il
tasso di occupazione femminile e quello maschile ed infine persone affette da
grave handicap. Categorie, come si vede, abbastanza eterogenee, di cui alcune
già destinatarie di percorsi paralleli agevolati, come per il caso dei giovani
e dell’apprendistato, altre invece per le quali sarà opportuno pensare a nuovi
percorsi che non presentino le difficoltà che finora si sono riscontrate.
Silla Cellino
[1] Si
tenga presente che anche per questi casi contemplati dal comma 1-bis e per
rapporti di durata minima di dodici giorni, come per ogni altro caso,
condizione essenziale per la validità dell’apposizione del termine resta l’esistenza di un atto scritto, da
consegnarsi al lavoratore entro cinque giorni lavorativi dall’inizio della
prestazione, anche se non è più previsto che debbano essere specificate le
ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che
giustificavano l’apposizione del termine.
[2] Salvo la possibilità di deroga di
cui al comma 4-bis già preesistente, se si è in presenza di diverse
disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale,
territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale.
[3] Si tratta di una fattispecie
diversa dalla proroga. Quest’ultima, disciplinata dall’art. 4 del
d.lgs.368/2001, consente al datore di lavoro, col consenso del lavoratore, di
prorogare la durata del contratto – e di poterlo fare una sola volta - con gli
stessi effetti del lavoro a tempo determinato, fino ad un limite complessivo di
tre anni, a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca
alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a
tempo determinato. L’art. 2-bis della novella esclude che la nuova forma di
contratto a tempo determinato possa essere oggetto di proroga, ivi compresi i
contratti derivanti dagli accordi sindacali di cui al secondo periodo del comma
1-bis.
[4]
In precedenza il limite era di 45 anni, con la condizione che fossero espulsi
dal ciclo produttivo o che fossero iscritti alle liste di mobilità o di
collocamento.
[5]
In precedenza il limite era di 25 anni. Vale la pena di precisare che si fa
riferimento ad un’età minore di 24 anni e che le prestazioni contrattuali
devono essere svolte entro il compimento del venticinquesimo anno di età. Viene
in tal modo aggirata una precedente impostazione, secondo la quale parlare di
limite [e non di età inferiore come in questo caso] di 24 anni avrebbe
comportato la possibilità di assunzione fino al giorno antecedente il
compimento del venticinquesimo anno, ossia di 24 anni e 364 giorni. Cfr.
interpello al Ministero del Lavoro 34 marzo 2006.
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