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lunedì 31 ottobre 2011

Partito democratico. Una generazione che ha fallito

pubblicato su www.pensalibero.it il 31 ottobre 2011

Una generazione che ha fallito si appresta a passare la mano. D’Alema, Bersani, Bindi, Finocchiaro, Veltroni e gli altri hanno ormai il fiato grosso e sentono invece sul collo l’alito più fresco di chi vorrebbe apprestarsi a togliere loro il bastone del comando. Per dimostrarlo non vale la pena ricorrere, come qualcuno ha fatto, al panorama delle diciassette correnti o supposte tali in cui è diviso il partito, ma è sufficiente constatare che da parte di questo vecchio gruppo dirigente sono rimaste solo le affermazioni di rito, ultimamente anzi mancano anche quelle. E’ vero che almeno qualcuno come D’Alema tenta ogni tanto di disegnare una linea, ma è sempre rifatta con lo stesso schema: le alleanze non come mezzo ma come strategia, all’insegna soltanto del levati te che mi ci metto io.

Stop. Questo è ciò che avevo cominciato a scrivere prima dell'avvenimento della Leopolda, a cui abbiamo guardato tutti con attenzione. Non che ora lo ritenga sbagliato, anzi direi che adesso si può ritenere quasi scontato, però non vale la pena di parlarne più: dovranno accorgersene loro da soli, sennò pazienza. Vediamo invece, al di là del bello e del buono anche troppo magnificato in questi giorni, ciò che è realmente successo, per le meno ai miei occhi, concetti buoni e qualcuno anche da rivedere, almeno nelle sue motivazioni di fondo.

Partiamo dal linguaggio, che è componente essenziale del rinnovamento e non è più quello dei vecchi partiti della tradizione, però diverso anche dall’eccessiva e un po’ rozza semplificazione dei protagonisti degli ultimi anni. Alla base del nuovo modo di comunicare c’è l’immediatezza, che si  ritrova nel far emergere anche in maniera spietata problemi e contraddizioni del nostro momento politico, ma soprattutto sociale e altrettanto nel proporre direzioni di riforma. Possiamo dire che limite di questa immediatezza sia l’eccessiva semplificazione, magari con rischio di schematismo, ma ci saranno il tempo e le sedi per approfondire: è già importante che i problemi vengano individuati con analisi semplici e diffusi con messaggi immediati e soprattutto comprensibili. In realtà non s’inventa niente di nuovo, ma nuovo è il sistema di diffusione e, al momento, è più efficace.

Parliamo poi di strategie politiche. Non c’è più un nemico solo. Anzi più precisamente c’è un nemico ed un avversario: il primo, avviato com’è verso un fatale declino, ormai sembrerebbe quello meno pericoloso, salvo fare i conti con gli strascichi dell’anticultura che ha diffuso. Più difficile invece è combattere l’avversario, ossia il conservatorismo della vecchia struttura, che poi magari all’anagrafe tanto vecchia non è, ma ha ereditato dalle componenti di provenienza i massimalismi e gli opportunismi che le avevano caratterizzate prima della fusione fredda. Renzi ha ben presente quali siano i rischi che corre personalmente lui ed insieme tutto il movimento, che peraltro ancora è solo un movimento che tenta di darsi personalità, ma che presenta ancora incertezza in alcune caratteristiche e soprattutto nei confini. E’ anche per questo probabilmente che lo stesso Renzi adotta un mix di audacia e di prudenza nelle sue tante esternazioni.


Infine l’ancoraggio storico: anche se la linea di fondo resta essenzialmente pragmatica, l’opinione di Renzi è che il partito democratico, che comunque costituisce sempre il punto di riferimento, debba superare le vecchie concezioni [ma in definitiva se ne deve liberare] che hanno caratterizzato la formazione del partito, quella cattolico liberale e quella socialdemocratica, dando in questo modo per scontato che la componente cattolico-popolare abbia un’estrazione liberale e quella ex-PCI un’estrazione socialdemocratica, convincimenti che anche agli occhi di un osservatore disattento risultano abbastanza singolari. Non che le sorti dell’Italia futura possano dipendere dagli esiti di questa disputa, però un’attenzione migliore non guasterebbe.

Silla Cellino

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