Francamente il dibattito politico di molti anni fa – all’epoca pressappoco in cui mi occupavo di queste cose anch’io – aveva caratteristiche che ora ci sembrano molto diverse. Non è una grande scoperta, lo so, però, prima di dare tutta la colpa a Steve Jobs ed a tutti quelli che come lui hanno contribuito a trasformare il nostro mondo, vorrei capire se, a parte il livello qualitativo, sia più produttivo misurarsi su larghe opzioni di derivazione ideologica oppure sui problemi del giorno dopo giorno.
Ieri, curiosando in libreria, ho scoperto che esiste ancora la rivista Critica Marxista, a cui nei bei tempi ero anche abbonato e che addirittura nell’ultimo numero ospitava un ponderoso saggio, udite udite, sul marxismo di Francesco De Martino, che – magari evolvendosi dalla sua origine azionista - marxista lo sarà stato forse nella sua cattedra partenopea di diritto romano, ma non certo nell’azione parlamentare e di governo come vicepresidente di Mariano Rumor.
E allora ho avuto la conferma che abbiamo vissuto e viviamo – allora come ora – in un grande periodo di mistificazione, in cui la politica non è, come dovrebbe essere, la traduzione nel pratico di un complesso di convincimenti maturati [vogliamo come allora chiamarla ideologia?], per trasformare nel caso di movimenti orientati al progresso, oppure per una corretta gestione dell’esistente da parte di chi maggiormente tende alla conservazione. Invece, al fondo, c’è sempre una scelta di potere. E l’apprezzamento può variare a seconda di come il potere è gestito; oppure anche di come è gestita l’opposizione.
Sul potere, inteso come quello nazionale, mi risparmio ulteriori considerazioni rispetto a quanto è sotto gli occhi di tutti: lo gnocca power è un aspetto che ci colpisce nei nostri convincimenti più o meno morali, però è sovrastrutturale, mentre al fondo c’è un radicamento di clientele e d’interessi, nazionali e locali, che non sono specifici del berlusconismo, ma su cui il berlusconismo fonda gran parte del suo consenso, oltre quello mediatico. Il problema però è che questi interessi e clientele non sono così specifici ed esclusivi di una parte sola, ma permeano lo spettro politico a diversi livelli, dovunque c’è una forza che gestisce un potere, spesso con gli stessi obiettivi, quasi sempre con i medesimi metodi.
Tutto ciò indebolisce non la possibilità di un ricambio, ma la sua efficacia. E se l’esperienza del caudillo di Arcore ha o avrà più o meno i giorni oppure i mesi contati, chi lo fronteggia non potrà per la terza volta cullarsi sull’illusione che tutto potrà essere automaticamente meglio. E’ abbastanza intuitivo che di ciò, per fortuna, ci sia consapevolezza. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che al centro la dialettica tra i movimenti, quelli che hanno già una connotazione di partito e quelli che sono semplicemente espressioni di pensiero, revival cattolico compreso, debbano ancora trovare una sistemazione complessiva e scegliere il versante con cui dialogare, a meno che non scelgano di porsi essi stessi come punto di riferimento e di coagulo, ma in questo caso la strada da percorrere sarebbe ancora lunga ed accidentata, mentre il tempo assolutamente non c’è. Né si spiegherebbe anche perché il partito democratico, come componente maggioritaria e teoricamente più rappresentativa del centro sinistra, sia ancora ai blocchi di partenza, con una leadership onesta, ma estremamente debole ed un pullulare di capi, capetti ed aspiranti tali tutti impegnati nel farsi largo e basta. In queste condizioni il risultato elettorale, qualunque esso sia, non potrà essere che un massacro. Per l’Italia, beninteso.
Silla Cellino
(pubblicato su www.pensalibero.it del 9 ottobre 2011)
(pubblicato su www.pensalibero.it del 9 ottobre 2011)
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